martedì 3 marzo 2015

Mario Benedetti, "Tersa morte"


Mario Benedetti, con Tersa morte (Mondadori 2013), mette in crisi l’implicito di ogni buon libro di poesia: quello sfondo che un corpo si porta dentro, nella forma della memoria luttuosa e della malattia, e che infetta la parola, ma non la annienta, anzi la fa splendere nell’ombra del lettore, rinvigorendone la promessa. Così era stato, in lui, sino a Umana gloria. Questo libro – radicalmente impoetico sotto questo profilo –sprofonda invece completamente nel nero, nella malattia e nel lutto, ma senza mai risalire, o raramente, spegnendo quella luce, che fa dire per esempio a Mario Luzi, rivolgendosi alla poesia: “Tu dammi il tralcio dei ritmi / il festone frondoso delle cadenze”. Dammi almeno il sorriso di Dioniso, se il senso ultimo delle cose è perduto.
A parlare, in Tersa morte, è invece una voce senza sostanza, “una voce qualunque” ridotta a nome, la quale ci ricorda, sottotono, che “non importa quello che si vede, non importa / quello che si dice o quello che si scrive”, perché nulla resta, nulla dura, se non la morte, che fa piazza pulita di ogni scoria. E tutto è scoria: case, città, epoche, ricordi, tranne gli affetti, ma che ora sono perduti, sprofondati nel nulla, inavvicinabili se non da un “sosia” che è memoria incarnata e inappartenente, “tempo portato addosso”, ugualmente infelice. 

Niente sorride in questo libro, niente si salva, abbiamo detto; non tuttavia per mimetismo metodologico, secondo il quale se l’oggi è un tempo morto, se l’essenza dell’apertura storica, di cui siamo parola e gesto, è sprofondata nel nulla, se s’intomba nel più scuro non-senso, la poesia dovrebbe, per imitazione, smettere di cantare, essendo appunto il presente già estinto e vuoto. Se fosse questo il presupposto (lo fu nella Neoavanguardia) sarebbe l’esaurimento storico a chiedere l’esaurimento del discorso poetico, la sua afasia radicale. Un esaurimento del senso, dunque, ma non del soggetto che lo pronuncia, se non altro nella posizione di sopravvissuto, di colui che racconta la maceria, che la mette in atto da una posizione fondata, per quanto precaria. Con Tersa morte il presupposto cambia. Se in Umana gloria questo annientamento dello spazio-tempo terrestre era in parte tenuto lontano dalla pietà creaturale, adesso il risucchio annichilente messo in opera dalla morte è tale da ricondurre ogni essere, dentro e fuori dal libro, a ente inanimato o muto. Anche il lettore scompare, almeno nella sua funzione di soggetto interpretante. Ad  esso spetta al più il compito di certificare l’avvenuto trapasso di ogni vivente dall’organico all’inorganico, “dal sangue, al sasso” direbbe Caproni, ma non ha appigli per rivendicare il diritto al disappunto, tanto è travolto dall’aurea mortifera che pervade ciascuna poesia. Il poeta stesso scompare, consapevolmente: “Sono questo, questa mortalità / che mi assedia, che si concentra / negli occhi, nelle mani. Intorno / sono mute le cose, le facce / che si muovono senza motivo, / e sento dissolvermi tra questo”.

La parola, dal canto suo, si arrende spesso all’indifferenziato, anche stilisticamente, attraverso una paratassi piana, che non è più solamente la cifra stilistica del poeta, come nei libri precedenti, ma inerzia di una voce che tenta di resistere all’annientamento. E questo capita perché l’unico soggetto, l’auctor fondante, qui, è la morte, tersa da ogni scoria; la morte e la sua solitudine infinita, la morte che parla a se stessa, in una circolarità desolata. Il suo essere soggetto ha infatti il modo dell’assoluto, del nient’altro-al-di-fuori-di-me. Il soggetto umano, invece, in quanto finito, si dà nel suo essere-relazione, nell’essere chiamato nell’aperto da un tu, che gli chiede ragione della sua opacità. Per questo motivo, la parola dei buoni libri di poesia cura i mortali dalla malattia dell’assoluto, aprendo al possibile, al non-ancora, all’imprendibilità del tutto terso o del tutto opaco. La morte a cui invece presta la voce Benedetti è, come appena rilevato, omnipervasiva e non ha parole da condividere con nessuno. Nemmeno con il poeta, assediato e convinto, dalla morte stessa, non solamente della propria inutilità, bensì della stessa possibilità autoriale, consegnandoci un libro che paradossalmente nessuno ha scritto: “Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia / […] / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta”. Scompare la poesia, l’autore, il lettore. Rimane la morte, padrona del camposanto, al quale essa stessa ci ha invitati, ma per imbavagliarci. Bravo Benedetti quando riesce a prendere come un tempo la parola, a resistere alla tirannia della morte, rigenerando così lo spazio dei viventi, ripopolandolo: succede quando nomina le cose, le persone, i luoghi, colti in piccoli gesti quotidiani, in spazi ordinari, dove la natura e la civiltà, seppur martoriate, alzano ancora la testa e dialogano con noi, con i nostri lutti e le nostre memorie infrante. In queste occasioni, la radice friulana del poeta si sente e va benedetta.



Da Tersa morte (Mondadori 2013)



maggio 2010


Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero
prendermi i giorni, le settimane, i mesi. Il tempo
portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi.
Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco.
Adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi.
Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto.
Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’inscurisce nella forma
di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola.
Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello
o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive.



*

Vado nell’aprile del duemila e dieci
quando la casa era nostra, e l’asfalto,
i fili della luce, le montagne, il sole.
Nessuno ci vedeva e noi vedevamo tutto.
Era il segreto di ognuno per vivere.
Cade quella primavera sulle suole di neve
con il peso di tutti i miei anni:
un bianco pestato in un amaro sale grigio
la sola immagine, il mio corpo di adesso.



*

Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità
commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani
vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.
Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Sei solo stanco, ripete una voce qualunque.



*

3 ottobre 2011


Le parole non sono per chi non c’è più.
Si commuovono e possono dire il viso morto.
Gli occhi erano quelli che mostrava,
il vestito sepolto quello visto altre volte.
Vedere che non ci sei più, non dire niente.



*

Il sosia guarda, la vita ha deciso.
Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.
E’ avvolta nella coperta sui piedi,
il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota
sulle scatole dello yogurt medicinale.
Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due.
Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.
E’ una storia per tutti questa morte.
Nella casa il sosia tocca le dita della madre
dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite
un mese prima di compiere gli anni lei
ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.



*

Il tram a Milano in viale Monte Nero,
eri seduta a guardarlo come guardavi i treni.
Con la bicicletta senza i freni,
dopo il passo di Monte Croce
per andare a Attimis, a Forame,
è stata una fortuna non cadere, sfracellarsi.
Sapevo che c’eri, che eri vicino a guardare
mentre io pensavo, e ti trattenevo.
Come una foglia tra le foglie
eri sulla panchina. C’erano alberi e alberi,
e il tuo viso, il vestito del solito blu.
Madre, persona morta
in viale Monte Nero, sulla strada per Attimis,
per Forame dove sei nata.


Mario Benedetti è nato a Udine nel 1955 e vive a Milano.
Ha pubblicato le raccolte I secoli della Primavera (1992), Una terra che non sembra vera (1997), Il parco del Triglav (1999),Borgo con locanda (2000), Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (2008), Materiali di un'identità (2010). Ha tradotto l'antologia poetica di Michel Deguy, Arresti frequenti (2007).



16 commenti:

  1. Mi fa molto piacere trovare qui la tua lettura di Tersa Morte, lettura che apprezzo molto e che condivido pienamente. Mi fa piacere anche perché penso che Mario Benedetti sia un autore straordinario (è riconosciuta la sua bravura, certo, ma secondo me non quanto meriterebbe, si è lontani da questo), perché lo conosco, e per questi due motivi i suoi ultimi due libri mi hanno messo in difficoltà. Allora ne scrivo anche io quello che penso.

    Umana Gloria è un capolavoro assoluto, secondo me. Uno dei pochi lavori che incarnano un'epoca, inventano e definiscono una lingua per quell'epoca. Nel mio modo di vedere la poesia, Umana Gloria sta ai nosti tempi come Ossi di Seppia stava all'inizio del Novecento. Da un libro così non si esce indenni, per primo l'autore: di capolavori se ne scrive uno solo nella vita.

    Per questo quando venne pubblicato Pitture nere su Carta provavo sentimenti contrastanti. Da un lato apprezzo la dignità di Pitture nere, il suo tentativo di uscire dal solco di Umana Gloria, il desiderio di una lingua scarnificata ed estrema. Dall'altro continuo a pensare che sia un libro di grande dignità, appunto, ma non del tutto riuscito; però integro nel suo tentativo di portare al limite massimo ciò che il Benedetti precedente suggeriva.

    Tersa Morte mi sembra, per certi aspetti, una via di mezzo fra i due, ma è una "finta" via di mezzo. Perché è vero che la lingua si fa più distesa e leggibile, non è così contratta e spigolosa come in Pitture nere; però al tempo stesso nei temi è ancora più estremo di Pitture Nere, dici bene Stefano che è un libro chiuso nel nulla, nel nulla assoluto in cui nemmeno l'autore e il lettore né la poesia resistono. Il compromesso, il ritorno a una lingua appena più distesa sono il preludio verso la dichiarazione di un vuoto ancora più grande e assoluto, che in questo modo appare sempre più inevitabile e non dissimulato dalla contrazione delle parole, dalla poca comprensione offerta a chi legge.

    Credo, appunto, che solo i grandissimi scrivano un capolavoro, e che la parola stessa (capo-lavoro) dica che se ne possa scrivere uno solo. Secondo me Benedetti lo ha già scritto tempo fa, e di questo dovremmo essergli riconoscenti. Così come dovremmo ammirarlo per come procede il suo percorso, che comunque cerca nuove strade, porta all'estremo nella forma - come in Pitture nere - o nella sostanza - come in Tersa morte - le sue convinzioni. Anche quando, come ora, il messaggio che rimane è durissimo e senza speranza.

    Francesco t.

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    1. Caro Francesco sono contentissimo di questo tuo commento, sia perché hai colto la mia stima verso Benedetti e il tentativo di capire chi davvero dice io nel testo, e sia perché hai scritto un testo autonomo, molto interessante, e che ti avrà impegnato a lungo, immagino.
      Ti ringrazio dunque per avere arricchito la riflessione intorno a questo autore che merita senz'altro massima attenzione da parte di tutti.

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  2. questo sosia.. queste dimensioni.. mi toccano profondamente per una personale sensazione che vivo e che qui trovo espressa perfettamente..

    leggo e rileggo l'analisi che del tutto non so comprendere, magari ci riuscirò..

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    1. Cara Amara, "del tutto" è una parola impegnativa: nemmeno io, che l'ho scritta, la capisco fino in fondo. Del resto, la parola è sempre di altri e altrove; se non fosse così, vivremmo muti da millenni.

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  3. Dei tre libri di Benedetti, invece, per me Tersa Morte rimane il migliore. Vero: un libro sul dolore, un dolore piegato su se stesso che poco o niente lascia alla speranza. Esattamente come succede nella morte. Solo in un libro di Sharon Stone "The Father" credo di avere letto una descrizione della morte e della perdita di una persona amata in modo tanto preciso e profondo. Tersa Morte di Benedetti è un libro intriso di verità. Un libro che grida verità, anche se lo fa sottovoce. Qui l'autore riesce a dire ciò che per natura è indicibile. Il linguaggio si spoglia di ogni artificio, Spesso i versi si ripetono come in un mantra, come se il dolore fosse troppo forte per riuscire a farsi strada nel corpo e sulla carta. Un linguaggio nudo,scarno ed essenziale, eppure poetico. Altamente poetico. Ogni libro, soprattutto quando si parla di poesia, ha una vita propria, tempi propri, e cambia e si evolve a secondo di chi lo legge, e del momento in cui viene letto. Io l'ho letto poco dopo aver perso mio padre e sicuramente questo mi ha condizionato, e predisposto ad entrare nei versi di Benedetti in modo più viscerale di come sarebbe successo in un altro momento della mia vita. Un saluto a Stefano e a Francesco.
    Daniela (Raimondi)

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    1. Non mi stupisce che a qualcuno, in questo caso a te, Tersa Morte piaccia più degli altri lavori: in fondo, e per fortuna, un libro è anche la tangenza fra chi lo scrive e chi lo legge, è lì che acquista un significato profondo. Io non sono giudice di nulla, dico soltanto che per me Umana Gloria è insostituibile. Ma sottolineo la coerenza e la dignità di tutto il percorso di Benedetti, che stimo e apprezzo in toto, e il fatto che tu, che sei lettrice attenta e profonda, trovi l'ultimo libro più vicino alle tue corde ne è una conferma per entrambi.
      Un saluto a te e Stefano.

      Francesco t.

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  4. Cara Daniela, la questione (tecnica) è: che cosa intendiamo, per lo più, per "poetico"? Se nella tradizione occidentale al "poetico" pertiene il desiderio e la scommessa sul futuro, allora questo potentissimo libro di Benedetti non è poetico oppure, detto altrimenti, ne capovolge il paradigma. Ciao!

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  5. Ci sono migliaia di definizioni di cosa sia o non sia poetico. A mio avviso un testo che abbia, allo stesso stempo capacità di sintesi e forza visionaria (nel senso più ampio del termine, cioè che illumini, faccia scattare qualcosa dentro la nostra mente), è poetico. In quanto a tecnica, sei sicuramente più preparato di me, visto che in Italia non ho nemmeno terminato la scuola superiore, ma esiste sicuramente una questione culturale sul modo di intendere e fare poesia. In Italia cominciamo solo adesso a staccarci da un liricismo superato almeno due generazioni fa nella poesia anglo sassone. Ecco: io trovo questo libro di Benedetti totalmente distaccato dal modo di fare poesia che prevale in Italia, e questo è, a mio avviso, un gran bene. Ciao Stefano, Daniela ,

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    1. la forza visionaria è sicuramente proprio del poetico. A me sembra che i testi più mortiferi del libro ne siano privi.
      Sulla tecnica: non intendevo "competenza tecnica", ma mi riferivo al fatto, alla pratica, che da Giacomo da Lentini al Benedetti di "Umana gloria, mette al centro il desiderio (d'amore, di morte eccetera) e la fiducia nella parola. Ecco questo libro non desidera la morte, ma, molte poesie, ne sono totalmente assorbite, al punto da annullare il soggetto desiderante.

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  6. "Da un libro così non si esce indenni, per primo l'autore: di capolavori se ne scrive uno solo nella vita." Ritengo particolarmente significativa questa frase di Francesco Tomada, che qui saluto. Sono d'accordo, così come lo sono nell'evidenziare la difficoltà di Benedetti nel trovare un seguito a quel libro: "Pitture nere su carta" parte da presupposti diversi, come a volersi distaccare dall'ombra monumentale di "Umana gloria". Ma non fu un'opera particolarmente riuscita, o almeno, diremmo non particolarmente riuscita rispetto alle aspettative.
    "Tersa morte" rappresenta un ritorno alla sua cifra originaria. Un ritorno, certo, ma viaggiando "chini verso la morte", come mi confidò un giorno l'autore. La gloria umana, qui, è completamente pervasa dall'incombenza della fine.

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  7. Caro Stefano, Spero tu stia bene. Approfitto di questa tua analisi su Tersa Morte per rigirarti l'osservazione che mi inviasti anni fa sulla rivista Atelier n.50 (convegno a tema: poesia e conoscenza) circa lo scrivere "metallico" che renderebbe (dicevo io) trasmissibile una poesia rinunciando all'umano, rinunciando cioè proprio a quello scarto che a tuo avviso era l'unico attributo che rende una poesia tale e quindi una forma di conoscenza, dell'essere. Quel che ti dico oggi, su questa tua e sul libro di Benedetti, è che dobbiamo fermarci al di qua della Tersa Morte perché non stiamo ancora morendo e quindi non sappiamo materialmente cosa significa, non conosciamo il torpore del ritiro delle funzioni vitali, lo spegnimento / annichilimento del nostro essere. Chi ha letto questo libro e non sa nulla di Benedetti né di poesia, non ci legge delle poesie ma un uomo che muore. Una forma di conoscenza anche questa, un diario terminale. Benedetti ha operato testamentariamente l'annichilimento dello scarto che io compii artatamente su una poesia di Magrelli per renderla fruibile a gente senza bagaglio umanistico ma logico-deduttivo abbinato al "poetico" pop, producendo appunto esperienza per il senso comune. Ciao. Giuseppe C.

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  8. Dici che Benedetti voleva raggiungere un lettore senza bagaglio umanistico?

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  9. Non so cosa volesse fare, non lo conosco di persona e non l'ho mai visto, quindi mi manca del tutto un riferimento. Posso dirti, da quel che ho capito in vent'anni dentro queste robe, che forse voleva trasmettere a chi sta dentro la poesia cosa significhi *uscirne*, uscire dalla cittadella e dal suo caldo riparo. Se colpisce te e maggiormente altri poeti sensibili a questi temi, forse riesce nell'intento. La Tersa Morte annichilisce la poesia perché annichilisce l'essere. Nel suo caso; annichilendo la poesia, rende quel che scrive perfettamente comprensibile anche a chi dentro la poesia non c'è mai stato. E' un libro per chi sta dentro la cittadella e ne uscirà, il libro della soglia; ma può anche essere un libro per chi non è mai entrato, dall'altra parte della soglia. Quel che chiedi a me andrebbe quindi chiesto a chi dentro la poesia non c'è mai stato, se trova qualche differenza con i diari terminali, se riesce cioè ancora ad inoculare lo scarto, come appare dalla tua selezione (ma ho il sospetto che tu abbia selezionato i pochi testi ancora marcatamente al di qua della soglia). Ciao. Giuseppe C.

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  10. sì, ho selezionato quelli in cui lo scarto sopravvive.
    Non credo però che ci siano intenzioni pedagogiche. Piuttosto, come in Dal Bianco e alcuni altri poeti della mia generazione, il desiderio di avvicinare il grado zero della retorica, per essere più vicini alla comunità dei viventi

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  11. questi testi, innanzitutto, assolvono al loro compito: testimoniano un uomo, e tutto quel corollario di altre esistenze che ne circondano la vita. l'aspetto stilistico forse è da rivedere, ma davanti a questa bontà, a questa sincerità, a questa purezza, tutto è perdonato

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    1. non si tratta di perdonare uno stile. Benedetti è perfetto a suo modo. Qui tentavo di capire che cosa significhi "poetico" oggi, in relazione a una scelta che mette l'esistenza al centro della parola

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