lunedì 21 gennaio 2013

Due poeti per ricordare (verso la Giornata della Memoria)



Ricordare lo sterminio attraverso la poesia. A questo proposito, segnalo due libri recenti. Il primo, Ziklon B (edizioni CFR, 2011) di Giacomo Vit, incontra l'orrore nella mediazione della favola, quasi rendendo magici gli oggetti lasciati soli delle vittime, che qui diventano protagonisti. Sono presenze messe in gioco per ricordare quando la relazione tra uomo e cose era carica di significato affettivo, relazionale, a differenza dei campi, in cui tutto è corpo inorganico, sostituibile. Ma anche – scarpe, occhiali, valige, bambole rotte, capelli, foto –  sono testimoni oculari dell'orrore, essi stessi vittime del tentativo disumano di cancellare le tracce di quanto non fosse ariano, di archiviarlo in cataste mute. Vit chiede loro di parlare, di buttar fuori – a nome degli internati – l'indicibile, quanto le parole umane non riuscirono a pronunciare, per un misto di vergogna, pudore e afasia da trauma. E lo fa usando il friulano, una lingua dalla scontrosa grazia, come direbbe Saba, aspra come una carezza, e un versificare breve, interrotto nel mezzo della frase, spezzato come i corpi e le coscienze nei lager.

Il secondo libro l'ha scritto Daniele Santoro, poeta salernitano. Sulla strada per Leobschütz (La vita felice, 2012) racconta, senza mascheramenti lirici, la banalità del male, ma anche che cosa accade quando l'idea di razza superiore toglie diritto d'esistenza alle altre. Anche i nazisti baciano la loro moglie e i loro figli prima di andare al lavoro nel campo; poi lì, fanno del loro meglio per essere tecnicamente all'altezza, secondo dottrina. E allora il dolore altrui diventa interessante soltanto sotto il profilo scientifico e il sadismo esibisce il peggio di sé. Santoro ci mostra i corpi terrorizzati degli internati in preda alle loro funzioni elementari, fa loro raccontare storie di ordinaria disumanizzazione, entra nelle logiche da burocrati dei nazisti, ci riporta insomma l'attenzione nei pressi di quanto non va dimenticato, se vogliamo uscire davvero dalla preistoria. Che cosa sia la cosa da non dimenticare – al di là delle intenzioni dei due libri appena citati – ce lo dice Giorgio Agamben in Homo Sacer e in Quel che resta di Auschwitz: ogni volta che viene meno il confine tra umano e disumano ossia quando la legge pretende di inglobare "la nuda vita", l'alterità (il diverso, lo straniero, la minoranza etnica eccetera) diventa l'untore, che va eliminato senza incorrere in punizioni. Auschwitz è la formula perfetta di questa piega etica.



Questo post esce in contemporanea con quello di Giorgio Morale, ne La Poesia e lo Spirito.
Qui le poesie di Vit e di Santoro.


Giacomo Vit è nato nel 1952 ed è sempre vissuto a Bagnarola (Pordenone). Maestro elementare di Cordovado, è autore di opere in friulano di narrativa (Strambs, Udine, Ribis, 1994; Ta li’ speris, Pordenone, C’era una volta, 2001) e di poesia (Falis’cis di arzila, Roma, Gabrieli, 1982; Miel strassada, Riccia, Associazione Pro Riccia, 1985; Puartis ta li’ peraulis, Udine, Società Filologica Friulana, 1998; Fassinar, S.Vito al Tagliamento, Ellerani, 1988; Chi ch’i sin..., Pasian di Prato, Campanotto, 1990; La plena, Pordenone, Biblioteca Civica, 2002, Sòpis e patùs, Roma, Cofine, 2006, Sanmartin, Faloppio, Lietocolle, 2008, Ziklon B- I vui da li’ robis, CFR, 2011.) Nel 2001, per l’Editore Marsilio di Venezia, ha fatto uscire La cianiela, una raccolta delle migliori poesie edite e inedite scritte dal 1977 al 1998. Ha fondato nel 1993 il gruppo di poesia “Majakovskij”, col quale ha dato alle stampe, nel 2000, per la Biblioteca dell’Immagine di Pordenone, il volume Da un vint insoterat. Con Giuseppe Zoppelli ha curato le antologie della poesia in friulano Fiorita periferia, Campanotto, 2002 e Tiara di cunfìn, Biblioteca civica di Pordenone, 2011. Componente della giuria del Premio “Città di San Vito al Tagliamento” e “Barcis-Malattia della Vallata. Ha pubblicato anche alcuni libri per l’infanzia.

Daniele Santoro è nato nel 1972 a Salerno, dove si è laureato in Lettere classiche, e vive a Roma, dove svolge attività di do­cente nei licei. Collabora con testi poetici e di critica letteraria a riviste di settore, tra cui «Caffè Michelangiolo», «Capoverso», «Erba d'Arno», «Hebenon», «II Monte Analogo», «La Mosca di Milano», «Sincronie» e le statunitensi «Gradiva» e «IPR Italian Poetry Review». Ha esordito con la plaquette Diario del disertore alle Termopili (Nuova Frontiera, 2006).

4 commenti:

  1. Sulla strada per Leobschutz
    Daniele Santoro La Vita Felice 2012
    nota di Rita Pacilio

    Nel mondo del poeta la parola memoria ha un significato precipuo che configura il valore morale di premura nei confronti di un passato storico rimasto indifeso. Nel volume poetico Sulla strada per Leobschutz (La Vita Felice 2012) Daniele Santoro recita la scena del destino dell’attore e del narratore che, attraverso la voce del poeta, assume le identità ora della vittima e ora del carnefice. Lo strazio delle vicende dell’olocausto sono coniugate in una testimonianza reale ed esemplare che riportano alla luce la verità imperdonabile e crudele degli eventi storici di quegli anni accuratamente documentati dall’Autore. Santoro affonda la ricerca nel mistero della morte inflitta e del soffio vitale attraverso episodi strazianti lasciando al lettore la pausa della riflessione e il palpitante disprezzo di tanta ingiustificata sorte. L’Autore, quindi, restituisce la Realtà alla realtà senza mezze misure: l’opera poetica diventa il testimone della lettura della storia favorendo l’interpretazione oggettiva dei tempi. La sensibilità dell’osservazione poetica cade sui silenzi enormi dei destini senza natura degli ebrei abbandonati agli abissi fisici e mentali dei campi di sterminio. La poesia diventa il nucleo allegorico e metaforico della storia e si mette al servizio della conoscenza affinché la denuncia non permetta più al mondo di cadere a picco in quel mondo. L’uomo pensa, Dio ride recita così un proverbio ebraico e chissà se le metamorfosi della crudeltà umana hanno permesso davvero a Dio di ridere di tanto dolore annunciato e taciuto, con viltà e prepotenza, dagli stessi aguzzini. Santoro si affaccia sul grande teatro interiore dell’umanità con stile poetico ricco di figure retoriche di alta liricità. Lo stile linguistico ricorda i Maestri del secondo novecento assumendo un carattere artistico potente e di solidità tra la lucida coscienza e il desiderio di uscire da se stessa senza che avvenga la spaccatura tra la parola e la cosa.
    Era poggiata ad un tronco d’albero e cantava sigilla la consegna di Daniele Santoro: l’esistenza umana nonostante il tempo e lo spazio, il fallimento e l’orrore, si distende oltre la stessa vita.

    http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-r-pacilio-su-santoro-454.html

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  2. mi sono piaciuti molto entrambi.. due modi intensi e diversi di parlare dell'orrore che quando si visita un campo si riesce davvero a percepire.. immaginarvisi dentro è una grande capacità..

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