sabato 1 febbraio 2014

Federico Scaramuccia







Federico Scaramuccia è un poeta di quarant’anni: abbastanza per andare direttamente alla questione, senza girare attorno al tema, drammatico, messo in scena in Come una lacrima (Edizioni d’if, 2011) ossia l’attentato alle Twin Towers, che Scaramuccia affronta con due registri differenti: l’uno sublime l’altro popolare, il primo formalmente efficace, il secondo che merita una riflessione ulteriore.

Prima osservazione. Il poeta ci informa nella Nota al testo che il “secondo atto”, “in distici a rima baciata, ripensa l’evento e la sua catena emotiva, amplificata dall’occhio televisivo “che espone il dolore facendone uno strumento di controllo”. A me sembra che nei 136 versi del “secondo atto”, la critica alla comunicazione omologante e alla spettacolarizzazione strumentale non sia affatto evidente. Il racconto descrive la maceria e il suo odore, l’incendio e il pianto, i morti. La critica all’occhio massmediatico non c’è, se non di passaggio verso la fine, quando la luce dei riflettori contende la scena al fuoco. Se c’è, e non l’ho colta, è un problema lo stesso vista la rilevanza che giustamente l’autore le attribuisce.

Seconda osservazione. Nei 136 versi dominano la pietas e il desiderio di trasformare la vicenda storica in evento epico, da celebrare non per un’aristocrazia del sentire, ma per tutti. In questo senso, i distici vogliono comporre un canto popolare, un inno, forse. Si spiega così la presa immediata del testo, ottenuta con la rima facile (quindi memorabile: croce/voce, rabbia/sabbia etc.), le immagini stereotipate (“un nodo che si scioglie come cera”, “un pugno insulso che stringe con rabbia”, “un dolore acuto che arriva al cuore” etc.) e un ritmo da marcetta (quest’ultima caratteristica suggerisce, appunto, la natura dell’inno). Dove sta il problema, posto che tutto questo sia voluto? La pietas è davvero il miglior modo di incontrare emotivamente l’evento, evitando di prendere posizione, ma, se si scrive un inno, specialmente se riferito a un evento fortemente connotato, non si può evitare di prenderla, di schierarsi. Se Come una lacrima si mette dalla parte dei vinti (ipotesi convincente e chiara nel primo atto della Lacrima), questo poemetto dovrebbe essere un canto funebre, una celebrazione del dolore attraverso la sua ritualizzazione collettiva (il canto popolare, appunto); tuttavia il ritmo cadenzato, regolare (“Non resta nulla soltanto un rottame / un’ombra netta dalla forme vane / si pianta nel petto come una croce / piega a terra il viso spezza la voce”) toglie l’elegiaco, la mestizia propria a un evento luttuoso, per portare invece il lettore ad alzare la testa, a lottare contro un nemico. Questa è la funzione dell’inno: esortare, convincere, schierarsi. Ma chi è il nemico, qui? Dovrebbe essere, a dare retta alla nota dell’autore, la comunicazione di massa con le sue storture; essendo però questa quasi assente, il lettore si trova in un condizione aporetica: commuoversi per i morti e, al tempo stesso, non sapere perché dovrebbe mettersi sull’attenti e nemmeno contro chi mettersi in marcia. A meno di non pensare che il soggetto negativo sia l’attentatore, Al Quaeda, ma Scaramuccia nemmeno su questo si pronuncia, né nel primo né nel secondo atto. E non lo fa perché sa che l’11 settembre è stato un evento troppo complesso per liquidarlo in una lotta fra buoni e cattivi. Ne consegue che i 136 versi in questione, colpendoci emotivamente e irreggimentandoci in un passo militare, si depotenziano dall’interno, indebolendo le reciproche spinte. In altri termini: forma e contenuto confliggono, danneggiando la resa complessiva del testo.

Terza osservazione. Se il libro intendesse ergersi quale espressione del tragico, come attesta la presenza del “coro” nel “primo atto”, l’ineluttabilità del destino dovrebbe diventare il vero colpevole. Qui, invece, non soltanto si tace sulla responsabilità storica (Al Quaeda) e si trasforma la tragedia in inno, ma si trova, almeno nominalmente, un capro espiatorio nelle TV che accorsero a filmare l’evento, a farne una grande bolla massmediatica, una grande lacrima artificiale. Il destino, da buon moderno, il poeta lo toglie, per sostituirlo con la tecnica audiovisiva al servizio della commedia del potere, che così – ma Scaramuccia tace anche su questo – ha l’occasione buona per dichiarare la guerra giusta ai nemici dell’America e di Israele.

Quarta osservazione. La caduta del tabù dell’inviolabilità territoriale americana (se si esclude le lontanissime Hawaii di “Pearl Harbor” nella seconda guerra mondiale), che avrebbe potuto diventare argomento di un’epica contemporanea, in Come una lacrima si trasforma in occasione per chiuderci nel pianto. Sotto questo profilo – e questo vale per il “primo atto” – l’epica diventa elegia. Per quanto certe immagini siano truci e molti verbi laceranti, tutto converge verso la commozione e verso i massmedia, che guidano la nostra visione (il “guarda” incipitario è guidato dall’occhio televisivo), tanto da procurarci un senso di disapprovazione, morale anziché politica, di pancia anziché nascere da un pensiero critico. Ovvio che la poesia non è ragionamento; tuttavia, se la organizzo in modo che ogni elemento della mio sentire incontri la commozione, non basta poi inserire elementi allegorici, di lotta tra il bene e il male (la colomba, il falco), per trasformare il dolore in discorso politico, anzi lo allontana, nella misura in cui rimane indeterminato il contesto (cfr. seconda osservazione). E resta indeterminato proprio perché a Scaramuccia interessa universalizzare l’evento, disancorarlo dalla contingenza storica. Così facendo, libera se stesso e il lettore dall’obbligo di comprendere la complessità del gioco mortale a cui ci ha consegnato una politica tutta spinta a salvaguardare gli spazi americani nel Medio Oriente, per consegnarci alla sfera emotiva, che lui sa gestire molto bene, da poeta, come scrivevo in principio.

Ripeto: qui non si vuole mettere in dubbio il talento di Scaramuccia, ma invitare lui e tutti i poeti che seguono Blanc a mettere in contro anche i risvolti ideologici dei propri testi. Mi viene in mente un passo delle Sacra famiglia dove Marx, a proposito del senso umanitario della borghesia presente nei Misteri di Parigi di Eugene Sue, dice che talvolta si scrive dell’inferno per salvare la propria anima. L’importante, dico io, è saperlo, così che la scrittura ci salvi, almeno in parte, dalla mediocrità in cui siamo immersi sino al midollo.

Da Come una lacrima (Edizioni d’if, vincitore del premio i microsotis 2010-11)

Prologo

gente di corsa al principio del giorno
non ne attende l’arrivo né il ritorno


Guarda è il volo in pace di una colomba
una colomba che cambia la rotta
non porta pace lascia in cielo un’ombra
una colomba rapace che lotta
come un falco con unghie lunghe afferra
la vita dopo spalanca la bocca


Coro

lo tiene fra i denti dentro la bocca
il cibo che è in volo per le budella
e mastica bene prima che inghiotta



Riepilogo

gente rimasta nella morsa il giorno
dopo con l’occhio fisso annaspa intorno



***

[...]
una voce roca che toglie il fiato
un filo ben stretto come un cappio
una voce che lotta che gorgoglia
che a volte si blocca e avvolta si imbroglia
la fiamma incerta che dal ventre guizza
che trova un varco che appena si drizza
la punta che trema e balbetta stanca
che vibra nell’aria come una lancia
è un cratere buio che ancora fuma
che nasconde la luce che imprigiona
come lo sguardo che ancora si annebbia
che nessuna lacrima ormai raffredda
una pioggia calda che non si estingue
che annaffia gli occhi e concima le lingue
che bagna la terra e secca nel fango
come un naufragio un abbraccio che strangola
un dolore sordo che non ascolta
condanna chiunque e sotterra la colpa
una bocca ingorda giudice e boia
si apre e non parla poi si chiude e ingoia
fra le macerie spunta solo un fiore
un fiore reciso senza colore
fra le macerie solo un fiore posa
una pianta rossa forse una rosa

[...] 

Federico Scaramuccia è nato a La Spezia nel 1973. Attualmente vive a Milano e insegna in una scuola media dell’hinterland. Presente in volumi e riviste con testi critici e poetici, ha pubblicato alcuni libri di versi, tra cui Come una lacrima (d’if 2011), vincitore del premio di letteratura “i miosotìs”.

14 commenti:

  1. Da un punto di vista puramente formale non sono d'accordo sul fatto che l' "inno" si presenti con un andamento a marcetta (ovviamente parlo in base a quanto ho letto qui dell'autore, con tutte le conseguenze del caso): mi sembra più che altro che il ritmo sia piuttosto incostante, pur essendo tutti i versi endecasillabi, peraltro alcuni dei quali tali solo per dialefe non proprio immediata.

    Però trovo che sia piuttosto interessante l'operazione di questo autore: scegliere la rima baciata, significa dare alla musicalità un rilievo non indifferente, quasi prepotente, da molto non leggevo poeti orientati in tal senso ed è una scelta che personalmente condivido, dal momento che per me la dimensione orale della poesia è importante (la scrittura è nata dopo.)
    Questi versi mi vien da pensarli recitati, più che letti su un libro e la cosa mi intriga, anche se la realizzazione ritmica non riesce a convincermi del tutto.

    Infine, ammetto candidamente che in un mondo in cui la rima baciata non è esattamente di tendenza, per usare un eufemismo, apprezzo la scelta di uno strumento tanto "controverso."

    Vittorio Cerruti

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    1. l'inno di Mameli ha l'enfasi della marcetta. Prova a cantare questi versi con l'aria di Novaro:

      una voce che lotta che gorgoglia
      che a volte si blocca e avvolta si imbroglia
      la fiamma incerta che dal ventre guizza
      che trova un varco che appena si drizza
      la punta che trema e balbetta stanca
      che vibra nell’aria come una lancia

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    2. Secondo te da quale battuta sarebberbo cantabili sul'aria del Novaro?... a me pare che non ci stiano neanche ad inchiodarli..

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  2. > l'inno di Mameli ha l'enfasi della marcetta. Prova a cantare questi versi
    > con l'aria di Novaro:

    L'inno di Mameli è composto da doppi senari anfibrachici, per cantare i versi proposti dovrei operare delle dialefi forzate sui versi che presentano endecasillabi il cui primo emistichio sia un senario (e quindi farli diventare forzatamente dei doppi senari.)

    Insomma, se voglio la marcetta devo pensarli come versi dall'andamento ternario, ma se è vero che l'autore ha adoperato parecchi endecasillabi di quinta, è parimenti vero che manca la costanza propria di una marcia.

    Vittorio Cerruti

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    1. ovvio che non è lo stesso passo, ma gli somiglia. non è una marcia, gli somiglia. se gli somiglia, non è lo stesso, non è su questo che la mia lettura si sofferma

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  3. Sinceramente non me la sento di commentare il contenuto del poema dai pochi frammenti che ho qui letto. Può benissimo essere che la pochezza espressiva che risalta hai miei occhi sia giustificata all'interno e nella globalità del testo.
    Il mio profondo sbalordimento va invece verso la critica “formale” fatta nella quale compaiono soventi riferimenti “musicali” a mio parere totalmente fuori luogo.
    Il brano è metricamente sconclusionato, quasi gridasse l'incapacità o la non volontà dell'autore di utilizzare un metro omogeneo.
    Al pari sono sbalordito dalla critica alla seconda parte in “rime baciate”. Forse il mio concetto di rima baciata e quello di gugl non coincidono, ma anche in questo caso quello che io vedo è più un accrocchio mal riuscito che non qualcosa “codificabile” con un cartellino d'appartenenza

    [...]
    una voce roca che toglie il fiato
    un filo ben stretto come un cappio ASSONANZA
    una voce che lotta che gorgoglia
    che a volte si blocca e avvolta si imbroglia RIMA BACIATA
    la fiamma incerta che dal ventre guizza
    che trova un varco che appena si drizza RIMA BACIATA imperfetta
    la punta che trema e balbetta stanca
    che vibra nell’aria come una lancia ASSONANZA
    è un cratere buio che ancora fuma
    che nasconde la luce che imprigiona NIENTE DI FATTO
    come lo sguardo che ancora si annebbia
    che nessuna lacrima ormai raffredda ASSONANZA quasi inesistente
    una pioggia calda che non si estingue
    che annaffia gli occhi e concima le lingue RIMA BACIATA
    che bagna la terra e secca nel fango
    come un naufragio un abbraccio che strangola NIENTE DI FATTO
    un dolore sordo che non ascolta
    condanna chiunque e sotterra la colpa ASSONANZA
    una bocca ingorda giudice e boia
    si apre e non parla poi si chiude e ingoia RIMA BACIATA
    fra le macerie spunta solo un fiore
    un fiore reciso senza colore RIMA BACIATA imperfetta
    fra le macerie solo un fiore posa
    una pianta rossa forse una rosa RIMA BACIATA
    [...]

    Per non parlare della pochezza strutturale di versi di cui ben 13 su 24 finiscono in forme verbali.
    Sinceramente il tutto mi lascia perplesso

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  4. è l'autore che ci indirizza alla rima baciata, nella nota al testo. Che certo è assai presente.

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  5. non ho mezzi per una critica alla metrica per cui leggo chi li ha e apprendo..
    di mio posso solo dire che, nel rispetto assoluto delle scelte di chi scrive, un'opera con queste caratteristiche mi risulta davvero pesante alla lettura..

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  6. Ciao Stefano,
    il tuo commento pone (almeno) due questioni tanto centrali quanto poco battute.
    La prima: le possibilità di esistenza – ovvero di sopravvivenza – del codice epico in poesia, inteso non tanto come il contenuto (nelle varianti dell'epica del quotidiano o delle piccole cose e così via), bensì come un contenitore variamente riempibile eppure riconoscibile. Per quanto mi riguarda, si tratta di un'operazione particolarmente rischiosa e contraddittoria, e quindi produttiva; nella percezione media la distanza che separa epica e demagogia – o epica e vaticinio – è piuttosto breve, e credo non sempre a torto. Recentemente ho avuto il privilegio di assistere a un'opera che critica duramente un regime dittatoriale non occidentale, utilizzando gli stessi codici linguistici che questo regime utilizza per fare proseliti. La potenza e la pulizia del messaggio era determinata, analogamente a quanto rilevi tu in chiusura di “Seconda osservazione”, dal non uso di un metalinguaggio.
    La seconda: noto un particolare pudore nei confronti degli strumenti del patetico, a vantaggio per esempio di quelli dell'ironia, che considero una forma particolarmente subdola di controllo, e di cui per esempio io ho fatto spesso uso. Pertanto la ricerca della commozione potrebbe diventare un'ipotesi percorribile per il raggiungimento del registro popolare; la scrittura è finzione, l'epica è giocoforza una semplificazione, ma le sensazioni che prova il lettore sono vere. Per quanto mi riguarda – precisando che non sto utilizzando gli strumenti dell'ironia – la forma attualmente più compiuta di epica contemporanea è il format televisivo “Uomini e donne”.
    Un caro saluto,

    Luca

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    1. Caro Luca, questa definizione di epica "come un contenitore variamente riempibile eppure riconoscibile." non dice nulla sulle caratteristiche dell'epica e nemmeno se sia praticabile oggi e come. Io credo che l'epica sia stata sostituita dal genere "romanzo": così come l'epica cantava le imprese dell'aristocrazia, il romanzo moderno canta quelle della borghesia. Quindi, praticarla oggi richiede una riflessione a monte e risponde alla domanda: "canto per conto di chi?"

      il patetico può entrare nell'epica, ma non ne è la cifra fondante. Anche il patetico, prodotto dalla retorica, è una forma di controllo. Impone il pianto così come l'epica impone l'eroico. ma anche il pianto può essere eroico e, l'eroico, muovere al piano.
      In defintiva, semplificare è sembra sbagliato. La tua provocazione finale (che tu, in fondo, ritieni una verità intuitiva) va ricondotta alla domanda che facevo in principio: per conto di chi? ciao!

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  7. Luca Rizzatello4/2/14 16:31

    Il mio intervento suonava molto più assertivo di quanto in realtà non volesse essere. Sono d’accordo con te, “un contenitore variamente riempibile eppure riconoscibile” non è neanche una definizione, era piuttosto una domanda indiretta, per conoscere la tua opinione circa le specificità formali della poesia epica oggi. In altri termini, ad esempio: un sonetto è un contenitore variamente riempibile eppure riconoscibile, che viene utilizzato tradizionalmente con propositi specifici; e, quando non viene utilizzato con dei propositi tradizionalmente riconosciuti, si parla di rottura con la tradizione, e quel nuovo uso della forma o produce qualcosa di nuovo o finisce in un vicolo cieco. Ne facevo una questione di codice perché non so dire se attualmente il codice poetico possa risultare produttivo per il genere epico, o se vada accettata la tesi per cui il genere romanzo abbia assorbito totalmente questa funzione. La mia ipotesi è che si potrebbero tentare nuove vie, magari proprio a partire da un confronto come questo. Semplificare è sempre sbagliato, hai pienamente ragione, ma dal punto di vista della costruzione retorica di un testo non so se le categorie di “giusto” e “sbagliato” (se intese in senso etico) siano appropriate. Nel precedente intervento mi sono espresso molto superficialmente in merito all’uso degli strumenti del patetico, che ritengo, proprio come te, una forma di controllo, addirittura più sofisticata di quella esercitata dell’ironia. La complessità in questo senso starebbe nell’arrivare al grosso partendo dal sottile, e possibilmente non sembrando grossolani. Per conto di chi? Al momento è una domanda a cui non so rispondere.

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    1. credo che l'ottava di Ariosto, la sua leggerezza avventurosa, s-centrata, potrebbe essere un modello, visto che viviamo in un'epoca furiosa. Per risposte più complesse, ci vorrebbe un convegno :-)

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  8. Luca Rizzatello5/2/14 11:45

    Sfondi una porta aperta, tanto sull'ottava rima di Ariosto quanto sulla realizzazione di un convegno. Si potrebbe organizzare, dico davvero; io ci sono, umanamente e logisticamente.
    Un caro saluto,

    Luca

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    1. mi prendi troppo sul serio riguardo al convegno: ne avessi il tempo, sarei in difficoltà a decidere l'argomento!

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