lunedì 30 giugno 2014

Mariasole Ariot


Dentro uno spazio labirintico escheriano, tra il bordello e il manicomio, dove dentro e fuori sono altrove inabitabili eppure inevitabili, Simmetrie degli spazi vuoti (Arcipelago, 2012) opera prima di Mariasole Ariot, ci racconta la vita allo stato larvale, il corpo-frammento che striscia nella sua tana, le sue relazioni animali, le sue reazioni all’erba, all’alcol, al “polline maschio”, al rumore della testa, al suo “delirio secco”, la sensazione d’essere morti eppure ugualmente in pericolo.

Diviso in quattro capitoli, questa plaquette – sostenuta da Gherardo Bortolotti e Michele Zaffarano – apre la piaga e la mostra dentro la carneficina del giorno, agìta dalla parola-deriva e dalla consapevolezza dell’umano come di “mosche incollate alle citazioni precarie”. Nessuno si salva, in questo libro, e nessuno è condannato: lo stesso cognome Ariot, può essere letto, coniugando l’a privativa greca con il sostantivo inglese, come  a-riot ossia assenza di lotta, rassegnazione. Nello specifico delle Simmetrie, l’io narrante, che si fascia “per nascondere la putrefazione”, accetta l’inferno di uno spazio in cui i silenzi “sporgono come fossero oggetti” e si mescola ad altri derelitti, “piccole edere che invadono le stanze senza linfa”. Non c’è resistenza all’annullamento, bensì un affidarsi alla parola come a una zattera senza destinazione. Suggestivo allora tentare un altro equilibrismo, accostando riot a griot, gli aedi della tradizione africana, con la differenza che questi ultimi si fanno portavoce della cultura di un popolo, mentre la poetessa vicentina, della cultura, racconta la fine, la maceria. Nondimeno, appunto, la parola mantiene una valenza fondativa e al tempo stesso scandalosa, di pietra d’inciampo (skàndalon, in greco). Invoca infatti un recentissimo inedito, in un sincopato (qui e altrove) che ricorda quello di Massimo Sannelli: “Fa’ della bocca un grembo, / fa’ che sia / grembo, come il rito sonoro è ora / vuoto, ora, fa’ che sia: pietra”. E proprio gli inediti ci confermano la forza di questo suo viaggio nel regno dei non-vivi, un naufragio lucidissimo nell’eterno nulla, nel quale “animali molli / diventano pioggia” e gli esseri più teneri si battono per non sparire, in delicato martirio.



Da Simmetrie degli spazi vuoti


G. mi chiama: mi hanno preso, saranno dieci saune e il nero scivolerà
dal corpo. Vitamine, vapore, scollamento. I settari mi
prendono sotto braccio.

Non farlo, ti prego.
G. risponde: il mio collo è già proteso.

Ritorno sulle cose, il mio corpo rigonfia in verticale e non c’è
tensione.
Scambio, amori liquidi, scelte interstiziali, questa casa è la mia
testa: cosa attendo, cosa sono, cosa voglio. E aspetto la sera per
dimenticarla, mi siedo fetale sulla soglia, ascolto viscerale con
l’occhio collassato nella gola. Chiedo spiegazioni, ricevo carità.

I padri
dall’alto
cadono come meteore.

Poi arrivano i richiami che scartavo: i ragazzi leccano le tavole a
perdizione, hanno labbra rosse e gambe veloci. Dall’alto
infilano sotto la porta piccoli biglietti di umore, li sento strusciare
alle pareti, ripetono un nome, il nome, il mio nome.
Piccole animelle che sapete già il mondo, salvate la mia notte
da una notte, mi sollevate piano, lanciate fili fino a raggiungere
la costola maggiore, e poi tirate piano. Io apro la porta per
vedervi scomparire, tappo le orecchie con due cuscini, avvolta
in un falso sonno fingo di non sentire ma vi sento.

Dal fondo delle scale dite: non ce ne andremo.

E così vi seguo, ci attacchiamo alla bottiglia come a una mammella,
è una risata a margine del mondo. Le giovani apparizioni
mi abbracciano la testa. Poi, come mantidi, ci divoriamo.

Questi noi che siamo voi, incontri come scintille e pullulare, inclinano
in caduta di animale. L’alba arriva sul monumento, il chiarore
delle colonne illumina i nostri volti bianchi, lei si appoggia
al vetro, stende i suoi rami, parla con voce bianca. Lui scrolla la
testa, troppo ubriaco per sentire, per gli occhi rossi trova un
rimedio: brucia e non c’è verso di arrestarlo. Il battito è nel
fondo delle dita, il suo volto non ha bordi.

Sulle scale un tuono passa, ci addormentiamo fino a perderci
nel tempo. E arriva il sogno.

Il cielo si separa: al lato sinistro una partitura notturna, il lato
destro un blocco di cemento, cappa estiva della terra.
C’incamminiamo verso riva, poggiamo le sacche per riposare,
prepariamo i letti come fossero cause – e ci attendiamo.

Nelle scatole che portiamo al collo conteniamo le giunture, uno
ad uno ci guardiamo, e il campo è pieno: uomini e donne come
fiumi
si preparano all’arrivo di una crepa, noi ci separiamo.

Poi dall’alto arriva, il lampo rosso acceca, precipita come una
scusa accelerata e scava solchi nel terreno, apre spaccature e
genera alture come volti.

Lavico
è il mio mondo.

Il cielo destro, prima d’un chiarore stanco e ossessivo, si apre ora
al blu cobalto, come un mare aggrappato al piano più alto le
nubi si diradano, il rosso apre fenditure accanto ai piedi, sfiora le
teste, i piccoli corrono al riparo. Con i due giovani, noi restiamo
immobili.

Ciò che ci sfiora rigenera gli sguardi, specchio dentro specchio
la terra si dilata. Non una guerra batteriologica, ma stravolgimento
primordiale, i miei interni confondono gli esterni, senza
confini possiamo ritrarci.

Padre, tra le gambe non c’erano porte.


Inediti


Tra gli edifici popolano eccezioni
muovono come riflessi sulla fronte
del tempo - e i sassi origliano
                                                         i segreti dei monti.

Per una sola immagine esiste
il lampo - e la collina e la rosa
che apre il terreno : compi il primo passo,
                                                           annuncia il raccolto.

Ma di quanto corpo
ci siamo creduti indegni :  l'indelicato fissa
la corda degli inattesi. Dice  "agli onnivori l'albero
                                                             ai cuccioli il grano"

Poi il canoro cielo scuce
dal becco i vermicelli nelle bocche : cedi
il pasto al sonno, gli animali molli
                                                            diventano pioggia.



**

Appese alla città
le bestioline perdono in tramonto,
fanno trama con i versi e tu mi versi,
                                  elimini la Storia.

[La voce dice: portala nella stanza, apri la carcassa, sfila l'insetto]

Mi appendo allora ai ganci della sera,
a questa terra di innesti e di sementi
che mastico e sputo, e mastico
                                   e ancòra sputo.

[La voce dice: sfila l'insetto, apri due bocche, fa sparire i resti]

Ma la città che mi abita dentro
torna a farmi visita ogni notte
mostra i canini superiori che ha perduto
e io mi perdo, si staccano i bordi delle cose.

[La voce dice: vesti l'abito rosso a lutto, metti una cornice al collo,
chiudi la stanza]


**

Mastica ancora
le lumache che hai annegato. Il tempo rigido
si pianta nella terra mentre tu: piangi

Strappa
una ad una le femmine della pianta: l’ascellare
si schiude, cresce il fiore.

Pianta
il pruno che ti ho dedicato, rigira le zolle
piano, non farmi deserto: piangi.


Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) vive e studia Sociologia a Trento. Ha pubblicato Simmetrie degli spazi vuoti (Milano, Arcipelago 2013), La Bella e la Bestia in AAVV, Di là dal bosco (Milano, Le voci della luna 2012). Sue poesie e prose sono apparse su Nazione Indiana, Il Primo Amore, Poetarum Silva, Gammm e Metromorfosi Infocritica. Ha composto musica e testo del brano “Inversione” per il disco A rotta libera del gruppo Forasteri e collabora alla rivista scientifica lo Squaderno - Explorations in space and society. Suona il pianoforte e dipinge.



7 commenti:

  1. Penso che vi sia un malinteso attorno a questo libro, che si tratti cioè di poesia del corpo, da qualche parte tra la possessione mistica e la confessione femminile – solo così mi spiego la ricezione distratta della critica di fronte alla novità di un linguaggio poetico tanto incandescente quanto iperreale, di un poemetto unitario, calibrato, che ci rovescia addosso la portata fondativa dello stato d'eccezione per i s/oggetti contemporanei (noi). Ringrazio Stefano, allora, come lettrice e come autrice interessata, per aver posto questo primo importante tassello, e per avermi indotta a tornare al libro in questi giorni. Di cui trovo le dominanti nell'erosione dei confini, nell'esplorazione tesa, visionaria eppure nitida dell'esplosione dell'io fuori dai propri contorni (“tutto è fuori di me”, 21, “i miei interni confondono gli esterni”, 18), nelle metamorfosi del soggetto alla ricerca di nuova compattezza, con la sola fibra delle parole a tenere uniti, ad abbracciare, incollare gli esseri fragili che attraversano queste pagine. Mi ha, tra le tante cose, molto colpito il finale – sarà che vengo da un periodo di ricovero ospedaliero, dove, da paziente, ti accorgi non certo della solita perdita di dignità rappresentata in non so quanti malaccorti film, quanto della lotta (pur piegati, piagati, eviscerati, gonfi, mezzi infermi, si tengono, vogliono, provano) – con le sue parole di resistenza: “i rampicanti siamo noi che finalmente decidiamo di uscire”

    renata

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  2. Nadia Agustoni6/7/14 18:08

    Un libro forte, piccolo nel formato, ma forte nel dire. Maria Sole Ariot appartiene a una generazione di nati dopo gli anni 70 in cui la rivolta è affidata a un no che è certo delle sue ragioni ma non trova abbastanza spazio perché quel no risuoni. I luoghi concentrazionari, siano ospedale o prigioni con le reti da cui uscire per rientrare ( essere senza mondo vuol dire molte cose insieme) impongono una realtà in cui pesano tantissimo le "piccole variazioni" e sono anzi "mutamenti radicali", ma ci ricorda, l'autrice, nel suo sapiente, dolorosissimo procedere, "Questi noi che siamo voi, incontri come scintille e pullulare…" in una proliferazione che sa infine, dai suoi bordi, negare la forza dei muri, anche arrampicandosi come "edere". Da un umanità inascoltata, tagliata fuori dai sogni di una socialità che forse seppe, ma per poco, farsi solidarietà, ecco un estremo atto di dignità; negare, ai guardiani, alla struttura che vorrebbe riempire il mondo con la coercizione, negare una centralità a cui la testimonianza prova a dare scacco.
    Mentre leggevo, cercavo di capire quel posto, non sapevo darvi nome, pensando da prima un CPT poi un ospedale… infine capirne la totalità che è dentro e fuori tanti di noi, forse di ognuno. I nostri luoghi totali, che la lingua non può sconfiggere, ma svelare si. E' un caso che pensassi tanto, mentre leggevo, a un libro come "Qualcuno volò sul nido del cuculo"? Eppure era lì, come una risposta. Anche se oggi cambiano i nomi, l'inferno è un paese dove noi nasciamo senza mondo, quello che il mondo non sa è che corpi e menti indifesi sono il primo indizio della sua malattia, del suo essere inospitale. Grazie Stefano delle tue riflessioni sempre importanti.

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  3. Ringrazio le due autorevole poetesse e critiche per la conferma che danno alla mia convinzione: Mariasole Ariot è tra le più brave della sua generazione e non solo.

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  4. Prima di tutto : grazie. A Stefano per avermi letta, per le sue parole, e per aver ritagliato un spazio per questo mio (tentativo di) dire, e a Renata e a Nadia che ne hanno proseguito la lettura.
    Sono occhi, i vostri, che attraversano quel (con)testo e lo guardano, aprendolo, da prospettive diverse ma dallo stesso interno : dialogano, aggiungendo o togliendo quel che io stessa non avrei saputo dire.

    C'è - come scrive Stefano - quella sensazione di "essere morti eppure ugualmente in pericolo", come -esattamemte - "una vita al suo stato larvale", al grado zero. Ma c'è anche il no che non dice no alla vita, piuttosto che dice no al non dirsi : lo stato larvale cerca la metamorfosi, anche quando - e forse solo a condizione che - questa significhi urlo, pelle che si stacca dalla pelle per far uscire ciò che non può uscire. A volte lo stato larvale dura anni, a volte una vita, a volte sono necessarie ventisette mute, o ventisette pagine. O ventisette vite. Poi c'è una vita alare : é l'alare un ? E' l'alare un corpo? Forse un spazio, lo spazio che sta tra uno stato e l'altro, tra un io e un tu, tra un non-io e un non-tu.

    Perché se l'io/noi, come scrive Renata, va fuori dai propri contorni, è perché i contorni sfumano non per porosità ma per qualcosa che ne sfrangia i confini stessi : al grado zero, in quell'acqua rafferma che sembra dire solo : deriva, lasciarsi trascinare, c'è l'urlo delle macerie e un grido sotterraneo che cerca nella parola un filo che traccia i contorni della frammentazione, l'inferno come" paese in cui noi nasciamo senza mondo", come scrive Nadia : o forse, già fuori da una scena del mondo in cui non siamo.
    Grazie davvero a chi mi ha letto e sentito.

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  5. Grazie Mariasole per questa articolata risposta, che evidenzia la tua consapevolezza riguardo alla poesia e alla vita.

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  6. autrice davvero molto interessante che ho cercato dopo aver letto alcuni suoi lavori su nazione indiana.
    da seguire.

    ciao, iole

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