lunedì 7 gennaio 2013

Roberto Bertoldo



L'invettiva è un genere alto, che attraversa la poesia latina e italiana. Per esempio un epigramma di Marziale, nella modernissima traduzione di Mario Fresa (L'Arca Felice, 2011), recita: "Fefe, lo vedi, è rachitico, è palliduccio: / perciò si crede poeta. Povero ciuccio!" (VII, 4). E Pasolini, due millenni dopo, ne La religione del mio tempo, chiama il critico cinematografico G. L. Rondi, "ipocrita", e "spie" gli "apostoli" di Luzi, oltre che accusare i letterati italiani d'essere tardi di comprendonio e ammanicati con i poteri costituiti. Per non dire di Alfredo de Palchi la cui voce, nell'ultimo capitolo di Foemina tellus (Jocker, 2010), prorompe senza timori "in accuse verso il mio paese di nascita, i suoi piccoli uomini grondanti di malvagità, e le vicende grandi e piccole che hanno fatto la mia storia". "Il rigurgito – aggiunge – mi è venuto spontaneo". E spontaneo è giunta la nausea anche a Roberto Bertoldo in Pergamena dei ribelli (Joker, 2011), nella cui nota egli sottolinea la provenienza della poesia non "dal nostro gusto ma, piuttosto, dal disgusto". Già ne L'archivio delle bestemmie (Mimesis, 2006), la posizione conflittuale era chiara e rivolta, frontalmente, ai poeti italiani contemporanei: "Le vostre divine parole sono da rotocalco, / le mie, così blasfeme e plebee, / le affiggo sulle porte delle cattedrali". Come un epigono luterano, la sua Wittenberg ha invero due porte: i libri di poesia e la rivista "Hebenon", che dal 1996 conduce una militanza autorevole sul fronte del "rifiuto della menzogna e la resistenza all'oppressione", come affermò Albert Camus alla consegna del Premio Nobel, discorso ampliamente citato da Bertoldo in esergo del suo ultimo libro.
Voglio essere chiaro: questa mia non sarà un panegirico a un poeta la cui lirica "si è affrancata dalla civiltà del post-simbolismo consegnandoci uno degli esiti più alti della poesia contemporanea", come scrive Giorgio Linguaglossa ne La nuova poesia modernista italiana (Edilet, 2010), sbilanciandosi più per coincidenza con la propria tesi, piuttosto che per chiare evidenze testuali. Preferisco restare un passo indietro, fuori dalle graduatorie, e descrivere anziché giudicare, almeno nella prima parte di questo saggio. Un primo passo l'ho fatto: Bertoldo prosegue una tradizione importante, che si aggancia direttamente, per sintonie e amicizia, con De Palchi, del quale "I quaderni di Hebenon" pubblicarono una raccolta di saggi nel 2000. Lì, Bertoldo riconosce "lo stile" dell'italo-americano "rabbioso" e "collerico" (esattamente quanto è riscontrabile nella Pergamena) perché "condizionato dallo scontro del poeta con se stesso, con la propria nevrosi". Qui tuttavia la somiglianza finisce perché all'io rancorso, Bertoldo, sostituisce il "noi" agguerrito, i "prediletti" che hanno "abbandonato la vita" per le sue troppe "clausole", che prendono "la poesia per il manico", un "noi" che sanguina, che piange, che vuole "il foglio dove scavare trincee". Una prima persona plurale vestita da guerra, dunque, senza pietà verso un voi che sfuma i contorni, un voi pusillanime, fatto di "uomini mediocri", "infami", servi del potere, contro i quali il poeta si fa martire, scrivendo a suo dire –  la verità. Ossia, appunto, sostenere che il mondo è sotto il controllo di esseri meschini, che, per dirla in un solo colpo, mafiano "la spina dorsale / dei popoli bigotti e sornioni". Una verità certo non nuova, e probabilmente condivisibile, ma che qui assume i tratti di una dichiarazione di guerra simile alla crociata ("vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati"), che dovrà sterminare il capitale e le sue mosche, poeti di regime compresi. Il disgusto, che pervade l'emozione e precede la scrittura, diventa prassi dell'odio, lotta aperta con l'inchiostro contro un nemico-monstrum, macchia esso stesso, lotta che in Bertoldo s'incanala anzitutto nel conflitto con la società letteraria nostrana, in un'azione non individualmente nevrotica, come in De Palchi, perché condotta invocando altri poeti-guerrieri. Poesia infatti "attende alla rivolta", nel senso che la prepara, con un fare creativo che ricorda il progetto dell'uomo in rivolta camusiano. L'autore franco-algerino costituisce non per caso un caposaldo della formazione bertoldiana, così come Leopardi: entrambi, ci ricorda, "sono alle radici della cultura nullistica" di cui egli religiosamente si è fatto teorico fondantore, intendendola quale "lotta contro la morte e contro chi, in un modo o nell'altro, asseconda tale morte. Tutto consiste in questo: vivere e aiutare a vivere, mitigando le sofferenze il più possibile, nonostante la certezza della morte" (R. B., Nullismo e letteratura, interlinea, 1998, p.29). Evidente che l'elemento del dono (“aiutare a vivere”) manca del corrispettivo cristiano del perdono, nella misura in cui il nemico, per Bertoldo, va annientato. A meno di non pensare a un cristianesimo nel quale il sangue degli infedeli garantisce un credito nell'aldilà, a una sorta di medioevo della Chiesa, potremmo dire, che in Bertoldo assume tuttavia l'anarchico respiro di una fede tutta terrestre, un dio-felicità a tutti accessibile, a patto che sia prima condotta una guerra contro i barbari e quanti detengono ora il controllo dei mari. Coniugando Bakunin e Rousseau, il paganesimo e Voltaire, Pergamena dei ribelli incita i soldati, usando il registro epico (immagini plastiche, militaresche, nitide, spartendo gli eroi dai codardi, i giusti dai malvagi), calcando la funzione linguistica persuasiva di una forte carica emotiva, il cui perno è l'aggettivo.
Le mie perplessità sono tra le righe, ma voglio renderle esplicite. La prima è di natura ideologica: scegliere la violenza (anche solo verbale, senza alcuna sordina ironica), sceglierla non occasionalmente, per eccesso singolare e sfogo o rabbia, ma per strategia operativa, per sistema, significa assimilare il metodo del potere, accettarne la logica e, dunque, perpetrarlo. Comunismo, cattolicesimo, capitalismo, anarchia sono identici da questo punto di vista. La seconda osservazione, chiama in causa l'intenso lavoro critico che sta facendo Giorgio Linguaglossa contro la "parola poetica del moderno", rea d'avere rimosso la "carica energetica" tramandataci dalla grande tradizione mediterranea prima della destrutturazione dei linguaggi. Destrutturazione, non dimentichiamolo, che è anche delle categorie gnoseologiche, dell'idea stessa di unità e di verità; l'esaurimento è dunque ontologico, non soltanto storico e psicologico. Io credo perciò che si possa uscire dal tardo simbolismo contemporaneo non per reazione alle poesie addomesticate o troppo esposte sul significante, come pare suggeriscano Linguaglossa e Bertoldo, bensì dando ascolto alle incrinature della contemporaneità. Se da decenni parole come frammento, lacuna, faglia, traccia, soglia – quando sono praticate consapevolmente – vivono fecondamente nella poesia italiana, ciò è dovuto all'appello stesso del vero, che dal Romanticismo ha trovato questo modo d'incarnarsi, in una differenza sia dai saperi positivi, che lo hanno irrigidito in una visibilità solida, monolitica, asfissiante, sia dal chiacchiericcio mass-mediatico, ma anche dal discorso ideologico. Diffido perciò di una parola poetica che pronuncia il vero frontalmente, senza titubanze, tanto più se in quella pronuncia si salva la violenza e si divide, in modo manicheo, chi ha torto da chi ha ragione. Moderno è proprio questo modo di procedere: da un lato i ribelli dall'altro i dominatori, senza distinguere le responsabilità individuali. Non sto difendendo sistemi di potere, ma semplicemente invitando ad una postura differente in merito alla definizione di verità condivisa, altrimenti i vincitori avranno sempre l'ultima parola. Questo soprattutto nel mestiere del poeta, che non può diventare educatore senza sventolare bandiere. I più bei versi di Bertoldo sono, per me, quelli in cui l'io lirico si lascia andare a metafore che trascendono la contingenza, senza perdere carica eversiva: "le stelle litigano sulla carcassa del mare, / spezzano l'appello dei gabbiani" oppure "Noi siamo l'altra fisionomia / dove i tigli agevolano le ombre". Versi nati da un respiro italiano, dove la scrittura scarta dall'oralità, dalla retorica, agendo sul metro, versi culturalmente in debito con la tradizione tardo-simbolista ma non per questo lontani da certo immaginario, anche bellicoso, dantesco e omerico, precedente alla koinè modernista e comunque efficace. Certo questa trasfigurazione potrebbe non bastare. Ci sono urgenze che cercano il grido, la bestemmia o, appunto, l'invettiva, ma credo che essa vada misurata e integrata con altri registri, altri toni, al fine di tenere la scrittura fuori dal proclama, fuori dalla cronaca più evidente, e perciò capace di parlare anche ai posteri e, per paradosso, agli antichi.


Lettura critica uscita con il titolo La militanza poetica nella tarda modernità: la linea bellicosa di Roberto Bertoldo ne "La clessidra" Anno XVII - n. 1-2 - novembre 2012


da Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011



Voi, uomini mediocri…

Voi, uomini mediocri, che rubate
i miei versi cantati a calce,
indubbiamente voi siete la storia
e incutete la miseria sulle porte,
quando la nube lastrica i ciottoli
di impronta umida e fraseggi di luna.
Fate della pena vostra l’inganno
che penetra con le sue dita disciolte
nella bottega dei miei occhi,
orsù padroni delle piaghe,
ci sono nate addosso le credenziali.



Sappiatela la verità…

Sappiatela la verità,
è sufficiente effondersi nello squarcio,
lo spacco della carne gelata
lungo le strade, contro i muri.
Chi occupa l’amore, per venti leghe
di giorni e notti, antec’a l’è
il nullificante, la bestia, carta straccia,
‘na rovina che impilo davanti ai
vostri visi grifagni, e che dico?
anche il ventre che fa vendemmia,
ch’eppure di monete è la vostra
intelligenza, vostra miseria,
la vendita dell’anima –
non c’è che la materia lì,
un po’ di roba da crespelle,
giù sino al foro, ancora,
vi voglio dire, che artisti
vedervi fare l’architettura della Convenzione.



A cosa hanno portato…

A cosa hanno portato quei tagli
nelle pareti della Palestina
e gli oliveti disfatti
come se la religione fosse un frantoio?
Quali germogli avrete
israeliani dall’occhio amaro
dove la terra è reproba
e la luna sempre calante?
La vostra sola fratellanza è da faccendieri
come per il muro di cemento palestinese,
il resto sono le case abbattute
di cui le coperte correggono il vuoto
sulle gambe dei bimbi intirizziti.
Tutte le poesie che accantonano il male
sono il suo crudele risvolto.
Noi vogliamo l’impoetico
se la vostra avidità di gazza
è sottaciuta dagli inni,
si faccia incetta di questo sale immenso
affinché i poeti urlino con le loro ferite
finalmente ecumeniche!



Urlano le tombe di Troia…

Urlano le tombe di Troia
sui figli di Sharon,
il ventre di Palestina ha aperto rose
nel capitale dei corpi,
abbiamo visto le ennesime pupille cadute,
sbriciolate le mani senza più carezze,
e uomini col sedere grosso
fare spazio alla propria sedia.
Tutti i popoli hanno i loro orchi
che declamano la notte
come fosse divisa in sillabe.



Avete appeso…

Avete appeso i colori dove il cielo era nero,
queste che vedete sono mani imperiture però,
macchiate, sia pure, con vernici d’oltre,
ma pronte alla battaglia contro tutti gli dei
che possa la vostra boria.
Anche le nostre labbra sono imperiture,
mica di pusillanimi poeti col cuore in ciabatte,
pure da seduti siamo sfrontati noi operai della parola,
noi vere bestie in agonia sulle greppie,
nelle mense per sfollati. Il parlamento è per i vostri poeti,
noi vogliamo il foglio dove scavare trincee,
anche chi scrive si prende le pallottole
quando trova la bellezza e la innalza
come una baionetta.



Ci sono giorni…

Ci sono giorni in cui le labbra luride cantano,
allora lavorano ai fianchi le parole, escono di merda –
e per noi la prova è l’infimo,
chiazze di lungimiranza infettano i sensi,
non c’è cazzo di vita nel vivere!
e ci fa paura prendersela con i venti
che scuotono sulla palpebra la notte dormiente,
come quando gli aerei ci passano sulla testa per andare a colpire
e sentiamo noi la scheggia che spezza i bimbi degli altri,
il peccato è anche questo essere risparmiati
perché le nostre mani non sanno fermare la disgregazione
di un paese, delle primavere, della paternità.
Non voglio fare il poeta ma amare sí, cristo!
bruciatemi le pergamene all’atto finale,
ma questo cuore lo rispetterete fino all’inferno.



Butterete ostie…

Butterete ostie sui carri allegorici
e le mani dei vecchi si perderanno
dove il buio è fugace, rosa nera,
in camice di nuvole, falsate dal vento.
Il polline della vergogna si posa
sulle pietre e i quadrifogli,
la luna, stipata, cancella la corteccia
degli amori infilzati dalle parole.
Voglio portare altri felici al regno del mondo,
gesù cristo era un bambino down
e sorprendeva i raggi del sole
con il suo sorriso d’ocra.
Disprezzerete anche questa pergamena
che snocciolo con la protervia
delle mie mani piantate sui muri
con contorni di sangue sanscrita.



Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento.
Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura "Hebenon", che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri.
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia stranieraHebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofiaAsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:
Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;
Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;
Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011.

26 commenti:

  1. Ciao Stefano,
    questa di Roberto Bertoldo è poesia sferzante. Talvolta è cosa necessaria nel tropo troppo liscio e gassato.
    Però...
    sarà una mia deformazione verbo-visuale, ma mi pare di scorgere,
    tra le sillabe, il riso beffardo di quel diavoletto di Marinetti. Forse è proprio il pericolo dell'iperbole non chiaramente ironica. Forse la
    rilettura potrebbe farmi scorgere anche qualche tratto di Tarantino, il
    regista: nel suo film 'Le
    Iene' riesce a far ridere
    con una scena di tortura, altrimenti...
    insostenibile.
    Tu sai che ho molta... immaginazione e talvolta faccio la mossa del cavallo e confondo.
    Un caro saluto a tutti.
    Armando Bertollo

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  2. p.s.
    non so perché, ma ho l'impresione che
    a Roberto Bertoldo piaccia il cinema di
    Alejandro Jodorowsky.
    a.b.

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  3. giro le domande al poeta: marinetti e jodorowsky sono presenti nel libro e, più in generale, nella tua poetica?

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    1. Gent. Stefano, gent. Armando e gent. Amara,

      ringrazio innanzitutto Stefano per la serietà del suo impegno critico verso gli altri scrittori, impegno che evidenzia la sua apertura intellettuale e umana, senza distinzioni classiste di fama, età e poetiche. Può sembrare strano, ma condivido il suo punto di vista, devo solo però mettere in luce un fatto che Stefano non poteva certamente conoscere e che riguarda l’origine della mia scrittura poetica e se questo fatto giustamente non “risolve” il giudizio, lo sposta sulle cause del linguaggio violento usato dai “ribelli” (la giusta affermazione di Stefano quando evidenzia il rischio, scegliendo la violenza verbale, di “assimilare il metodo del potere, accettarne la logica e, dunque, perpetrarlo” è in accordo con quanto scrissi nel pamphlet “Chimica dell’insurrezione”; tuttavia il mondo civile è rabbioso e ciò che i bisogni economici determinano, come diceva Cuoco, nessuna parola potrebbe comunque frenare).
      Dunque, l’origine della mia scrittura poetica: provo, da sempre, un eccesso di sensibilità empatica per chi soffre e dunque quando scrivo m’immedesimo nel male degli altri. In sostanza, la frase di Camus: "La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo", orienta la mia scrittura, seppure non in modo programmatico. Così nel libro che Stefano analizza a parlare sono i ribelli (e ovviamente anche il ribelle che è, sia pure più mite, in me), come nel mio precedente libro di poesia, “L’archivio delle bestemmie”, a parlare era il bambino che aveva subito stupri spirituali (ne ho conosciuti molti di bambini rovinati da questo tipo di violenza). Sono i ribelli non il loro portavoce ad essere manichei (“tutti i politici sono ladri”, sento per esempio dire), sono i ribelli ad essere violenti, ecc. Mi sarei sentito moralista a zittirli con la parola poetica; sento il dolore e la rabbia delle vittime e cerco di dare a questi voce, certo non con le espressioni altrui ma con il loro tono. Ripeto, non c’è un progetto in questo, c’è un bisogno. Aggiungo poi che il risultato di questa “Pergamena” è stato, senza che lo volessi, uno stile tragico, quindi spezzato corroso barbaro, e in esso, nella sua “sferzata”, c’è senz’altro del sarcasmo (qualche critico ha visto anche ironia), come dice giustamente Bertollo. Non però originato da Marinetti, forse da quanto di Marinetti è passato a Majakovskij.
      Alejandro Jodorowsky non lo conosco, ma lo cercherò senz’altro.
      Un’ultima cosa: l’accostamento di Linguaglossa a me nasce da un equivoco. Io non voglio uscire dal simbolismo, anni fa sviluppai a posteriori, sulla base della mia espressione poetica, la teoria del tonosimbolismo (e non fonosimbolismo come qualcuno ha creduto sulla scorta di Pascoli) proprio per chiarire la forza che ancora oggi ha il simbolismo, per quanto reso più tonale e intersemico. Questo, mi distanzia molto anche da de Palchi, nel quale il tono, come ricorda bene Stefano, è nevrotico, ma soprattutto più epidermico e sensuale.
      Un caro saluto a tutti voi.
      Roberto Bertoldo

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    2. Caro Roberto, la tua risposta mette in luce tutta la tua dolcezza. E' come se, quando scrivi, tu fossi rapito dal demone dell'immedesimazione: e' un bisogno, scrivi, non un progetto. Io diventa un altro.
      ti chiedo: possiamo diventare l'altro-ideologico o l'altro-offeso? rimbaud con "Io è un altro", intendeva questo?
      un caro saluto e grazie per le precisazioni.

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    3. Roberto Bertoldo9/1/13 23:27

      Si Stefano, però mi riferivo alla scrittura creativa. Il progetto viene dopo, come credo anche in te, e ci porta alla filosofia e alla critica. L’io è un altro, dici giustamente citando Rimbaud, ma solo un altro-offeso, non un altro-ideologico (almeno nel mio caso). Ciao, grazie a te

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  4. invidio un po' chi ha la capacità di confrontare, scovare parallelismi, cogliere influenze.. non possedendo tutto questo (e molto altro), mi limito a condividere con convinzione l'ultima parte dell'ottima introduzione critica (ci sono urgenze.. ecc..)
    anche se ho trovato qualche immagine molto riuscita..

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  5. Bertoldo è un poeta di grande onestà ed è come se ci dicesse, io non arrivo a pensare a ciò che sono, quindi io sono un nulla. Gli orpelli e le lamentele metafisiche gli sono tossici. Per lui tutto il mondo è straniero, il nulla l'ha stilizzato senza false verità. In lui la dolce vita sanguina e ce lo dice liberandosi di quella scrittura "di pensiero" così impersonale e astratta e che tanto assomiglia a quella che usano preti e poliziotti.

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    1. Ciao Antonio, ben ritrovato. Hai ragione, la poesia ci libera dalle tossine del nostro eccesso di pensiero, è la forma di scrittura più panlinguistica, anche se do molto valore alla “favola” nietzschiana.
      Roberto Bertoldo

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  6. antonio curcetti8/1/13 21:25

    dimenticavo...
    Antonio Curcetti

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  7. Grazie Roberto
    della risposta.
    Ammetto, la foto mi aveva aiutato:
    mi sembrava troppo distante
    l'espressione sorridente e ironica del volto
    del poeta, dal tono completamente
    opposto della scrittura. Non che
    io sia lombrosiano, ma certamente talvolta
    osservo. Se recupera i film "La montagna sacra" e
    "Il topo" di Jodorowsky, troverà, a mio avviso,
    qualcosa di familiare nella loro sorprendente
    asprezza espressiva. Mai fine a se stessa, però,
    perché Jodo è un autore profondamente positivo.
    Le scosse che lancia visivamente sono liberazioni.
    E, come Lei ha chiaramente spiegato a proposito della
    sua poesia, anche una dimostrazione
    di empatia
    verso chi, 'diverso', nel mondo è condannato
    immotivatamente a soffrire.
    Poi non so se apprezzerà
    anche il 'pieno' di simbolismi e allegorie che
    contiene questo cinema, straordinario, comunque
    per originalità e potenza di immagini.

    Un particolare grazie anche a te Stefano,
    che in questo tuo 'blanc...(place, piazzale)', mi
    permetti di fare riflessioni e incontri
    interessanti.

    Rinnovo i miei saluti a tutti,
    Armando Bertollo

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Roberto Bertoldo9/1/13 23:30

      Caro Armando,
      lei colpisce nel segno. C’è una notevole differenza tra la vita pubblica e la scrittura, se non altro perché quando si scrive si è soli e il mondo, sia ontologico che contingente, ci investe. Tra l’altro se il poeta, che è tale per sopperire (mediante sublimazione, direbbe Freud) ad una deficienza congenita (quale sia è soggettivo), evidenziasse nella vita quotidiana la sua propensione alla sofferenza verrebbe emarginato non solo dai lettori, fatto poco grave, ma soprattutto dagli amici, fatto davvero doloroso. Purtroppo i moltissimi impegni di lavoro, studio e famiglia hanno ridotto all’osso la mia vita pubblica e quindi il meglio di me viene meno. L’ironia, e soprattutto l‘autoironia, inoltre, serve a spegnere quell’odioso “guru” che è in ognuno di noi. Gli scrittori che mi conoscono di persona intravedono sempre anche in ciò che scrivo quest’ironia e più di quanto la veda io, che tendo a non pubblicare i testi poetici in cui essa è troppo scoperta (lascio all’ironia gli aforismi, piuttosto).
      Recupererò senz’altro i film che mi segnala e andrò a leggere, come mi consiglia Stefano, le sue poesie, ma di questo le scriverò lì.
      Un caro saluto.

      Elimina
  8. Grazie Armando per questa discussione.
    Io invito anche Roberto a leggere-vedere la tua poesia, cercandola nell'elenco di poeti qui a destra.

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  9. L’analisi di Guglielmin della Pergamena è molto bella e intensa, ma non mi trova completamente d’accordo in alcuni punti. Provo a spiegarmi, spero abbastanza chiaramente (malgrado l’ “improvvisazione” di quanto sto scrivendo).

    La poesia di Bertoldo (anche quella della Pergamena) è la dimostrazione che ogni poeta, se è poeta, “è” la sua poetica e il suo canone. Ovvero, è immediatamente riconoscibile per la sua autonomia e originalità. Bertoldo è sempre immediatamente riconoscibile, in ogni sua produzione – da quella filosofico/teorica a quella narrativa, a quella poetica. Si possono trovare poeti e scrittori che gli si apparentino, ma solo “eticamente” ed ermeneuticamente (come Pasolini, a mio avviso, e certo, come ricorda giustamente Guglielmin, i suoi “padri”, Camus e Leopardi), perché lo stile è solo il suo, il canone è il “canone Bertoldo”. Nel quale il simbolismo non può non avere un ruolo centrale, perché il linguaggio poetico nasce all’interno del simbolo e dei suoi vettori – metafora, metonimia, ritmo (tono, si dovrebbe bertoldescamente aggiungere).

    La violenza del linguaggio, in poesia, è una scelta ideologicamente importante (sia nel caso in cui la voce del poeta si faccia voce di altri, sia nel caso in cui rimanga chiaramente la sua). Posto che concordo pienamente sia con Guglielmin che con Bertoldo sul fatto che la violenza, in generale, è funzionale al potere (insulsa nota autobiografica, necessaria però per capire da che punto di vista mi esprimo – politicamente mi sono formata nel pensiero anarchico e nella nonviolenza capitiniana), tuttavia esiste anche una violenza “giusta”, quella che dice assassino all’assassino, anche evocando il sangue (lo fanno anche i nonviolenti). Come ha cercato di fare Pasolini fino alla fine, attraverso la riflessione linguistica e semiotica, la lingua (ogni lingua) non è neutra e quando diventa veicolo di violenza deve essere giustificata ideologicamente e stilisticamente, altrimenti diventa moda (una moda anche molto attuale) e quindi prodotto della debordiana società dello spettacolo, cioè strumento attivo del potere, autentica forma di violenza. Ma la violenza della Pergamena è ampiamente giustificata dall’ideologia postanarchica di Bertoldo, che, proprio per la sua attenzione al valore individuale della vita e della sofferenza (e dell’ingiustizia sociale), non proclama verità con la maiuscola ma accusa, senza mezzi termini, qui ed ora, e non solo il servilismo della classe intellettuale (alla quale il poeta inevitabilmente appartiene e perciò deve innanzitutto attaccare), ma anche di quella politica ed economica.

    L’anarchia/anarchismo non conosce, anzi disconosce la violenza del potere, per il semplice fatto che lo rifiuta il potere, nei fatti e nell’essenza. Questo permette, politicamente, a Bertoldo di usare una violenza non strumentale al potere – la violenza della parola, che è necessaria, e pure Gandhi o Capitini la usavano. Perché nella verità (che è sempre, umilmente, la nostra) c’è la giusta carica di violenza, altrimenti non sarebbe verità (in fondo, non è che questo quello che dice il Cristo di Pasolini, attraverso la sua fisicità, innanzitutto).

    Appunto a Bertoldo (idiotamente filologico – ma Roberto sa bene che io sono una “maestrina”): Majakovskij (a mio avviso) ti appartiene, eticamente, tanto quanto Pasolini, ma Marinetti non gli ha trasmesso nulla. Majakovskij lo disprezzava anche in quanto poeta, non solo in quanto fascista (anche per la pretesa, non poi così infondata, che i futuristi russi avevano di essere stati i “primi” futuristi…)

    Francesca Tuscano

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    1. Roberto Bertoldo9/1/13 23:34

      Fiuu, quante cose! Mi soffermo solo sull’ultima giusta osservazione, per il resto sono d’accordo con Stefano che l’illusione fenomenologica di una fondazione di canoni sia deleteria, ma non mi pare che Francesca intendesse questo. L’originalità, come diceva Proust, consiste nel restare se stessi e cioè, aggiungo io, nel non accettare compromessi riguardo la propria scrittura, né prima né durante né dopo. Poi essere originali può anche significare non valere niente come scrittori, ovviamente. Bisogna sempre accettare che la nostra opera risulti alla fine, cito ancora in parte Proust, soltanto un vano sforzo spirituale.
      La critica di Majakovskij a Marinetti è soprattutto politica, ed è da me condivisa, però il futurismo ortodosso russo era con Marinetti. Majakovskij stesso afferma che il futurismo russo nasce veramente nel 1912. In ogni caso Marinetti agitò tantissimo la cultura russa. Cosa c’è di lui in Majakovskij? Beh, è di questo che parlavo e davo solo una mia sensazione di lettore. Se pensiamo al fatto che Marinetti rendeva esplicita l’analogia, e lo faceva non solo nella poesia sonoro-visiva ma anche e in modo più consono alla scrittura verbale nella prosa, mentre Majakovskij resta in genere più inserito nel filone dei poeti suggestivi, c’è quasi niente, ma la potenza metaforica dei due, una più razionale l’altra più intuitiva, ha dietro o dentro la stessa strutturazione, strutturazione che trovo pure nell’epistolario. Come anche quel segno ironico di cui parlava Armando Bertollo. Per il resto c’è senz’altro una differenza enorme tra i ‘compiti’ di Marinetti e la ’poesia’ di Majakovskij.
      In ogni caso la mia è solo una sensazione, in quanto non ho, almeno in questo campo, le conoscenze sufficienti per addentrarmi di più nella questione.
      Grazie, ciao Francesca.

      Roberto

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  10. Gentile Francesca, ti ringrazio per questo intervento approfondito. Certo è possibile dire che ogni poeta, quando non copia nessuno, fonda il canone da capo. Bisogna poi fare i conti con il modo in cui la tradizione filtra questa novità. E qui nessuno di noi può decidere per tutti.
    A me pare che Bertoldo tenda ad azzerare la funzione poetica, solo che questa gli è ormai nel sangue, ed esce lo stesso. A me però sembra che l'ideologia qui sia prevalente (a giustificazione Bertoldo stesso dice: non sono io che parlo). Però, parlare per gli altri è pericoloso: le dittature nascono da qui. Ovvio che non sta dicendo che Bertoldo sta progettando una dittatura: commentavo solamente la scelta stilistica che, come dici tu, non è mai neutrale.

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  11. Caro Roberto, caro Stefano provo a spiegare sinteticamente un paio di cose che avevo detto non troppo chiaramente (magari, poi, non chiarisco niente lo stesso...).

    Sì, Roberto, quando io parlo di canone non intendo un canone intenzionale, ma la coerenza del poeta alla propria originale poetica, che, quando è autentica, è anche continuamente messa in discussione e rivisitata da quello che il poeta deve/vuole dire. Per questo, Stefano, non credo che in Pergamena Roberto tenda ad azzerare la funzione poetica - la evolve (positivamente, a mio avviso - ritengo che Pergamena sia il suo miglior libo di poesia), e la evolve nel senso della rabbia e del dolore che deve esprimere (io non ci trovo molto sarcasmo in questo libro, ma tanta sofferenza, a denti stretti, e i denti stretti possono anche somigliare a sorrisi forzati).
    Sulla tradizione il discorso (molto intrigante) è troppo lungo e complesso per le mie capacità di esprimermi in un blog...

    A Roberto su Marinetti e Majakovskij - è indubbio che alcuni futuristi russi abbiano apprezzato Marinetti (non so se definirli i più ortodossi, a dire il vero...), e lo stesso Majakovskij ha riconosciuto che i due futurismi (italiano e russo) avevano dei temi comuni (innanzitutto quello della megalopoli), ma nello stile...qui il discorso si fa più complicato, e riguarda il senso che ha il "mandato" del poeta (come giustamente dici anche tu)...riprenderemo altrove il discorso.

    A Stefano sul tema a me molto caro dell'ideologia e della violenza. Quando si vivono momenti - come il nostro - di dittatura e violenza, il poeta ha solo due scelte. Tacere (come indicato dalla nota tradizione nata con la seconda guerra mondiale e l'olocausto) o parlare per gli altri. Il che non è pericoloso, ma doveroso, a mio avviso (se si è in grado di farlo - ma Roberto lo è). Come scrisse Anna Achmatova nel prologo del suo Requiem, quando il poeta "sa" "descrivere" il dolore, la sofferenza, per chi non riesce a farlo, lo deve fare (perciò, come scrive nell'epilogo, la sua bocca, la bocca del poeta è: "la bocca tormentata/Con cui grida un popolo di cento milioni"). Io credo che Roberto sia riuscito ad essere molto "russo" in questo, con la sua Pergamena, e perciò ha fatto parlare gli altri senza scivolare nel pericolo (anche stilistico) della "dittatura", ma indicando, anzi, i pericoli della dittatura.

    Grazie ad entrambi!
    Francesca

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    1. parlare per gli altri: davvero è possibile? che cos'è un testimone? A nome di chi parla? A chi parla?

      ciao Francesca, felice di averti incontrato qui (ma certo questi temi non li lascio per strada)

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  12. Gent. Francesca Tuscano,

    rientro in questa interessante conversazione
    perché l'appunto su Marinetti mi sembra più
    indirizzato a me che a Roberto, considerato
    che sono stato io a farlo... spuntare.
    Forse non sono stato sufficientemente preciso.
    Citando Marinetti, con 'le pinze' e ironia, tra l'altro, non stavo pensando affatto alla poesia
    di Marinetti, ma a qualcosa (nel tono 'battagliero',
    nell'uso del 'noi', nel tentativo di scuotere gli animi tiepidi),
    della poesia di Roberto Bertoldo,
    che mi ha fatto ritornare in mente degli aspetti del
    Manifesto del Futurismo. Non dal punto di vista ideologico, -sia chiaro- ma, appunto, nell'atteggiamento di ribellione o comunque di critica, verso
    la condizione di 'stallo', o di rinuncia all'impegno civile di molta attuale scrittura poetica. Roberto, ha precisato
    bene la sua posizione. Ecco tutto.
    Un caro saluto,
    Armando Bertollo

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  13. Caro Stefano! Il piacere è stato il mio! Sì, sono temi complessi e intriganti, ma, a mio avviso, centrali, in un momento storico come il nostro. Sì, prestare la propria "bocca" agli altri si può, umilmente e doverosamente, come Anna Achmatova (ma non solo lei) ci ha insegnato, nel solco della grande tradizione poetica russa (ma non solo).

    Ad Armando - no, l'appunto (ma con ironia da maestrina, per l'appunto...) l'ho fatto proprio a Roberto...ci conosciamo abbastanza da poterci divertire con queste scaramucce filologiche...Quanto a Marinetti e la Pergamena - beh, non avevo detto niente in proposito, a dire il vero, ma, se un dubbio ho, è quello che il Futurismo (sia italiano che russo) erano convinti del valore delle "magnifiche sorti e progressive" della tecnica e del progresso ad essa relativo, e la loro ribellione aveva una proiezione nel futuro (serviva per iniziare a viverlo, il futuro), mentre la ribellione della Pergamena è più "contadina", disillusa (postmodernamente e leopardianamente), legata al presente in senso postanarchico.
    Grazie ad entrambi!
    Francesca

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  14. Leggo e cerco di mettere da parte.
    grazie a tutti.
    vincenzo

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    1. metti da parte, ma anche scrivi che i numeri li hai.
      ciao!

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  15. Data per indubbia l'autorevolezza della presentazione critica di Stefano Guglielmin, ogni volta che leggo o rileggo Roberto Bertoldo, sento solo le sue poesie, di una forza straordinaria e ancor più straordinaria perché di un'autenticità mai greve, solo intensissima e sempre storicamente e anche psicologicamente attuale. E' la fedeltà al proprio pensiero che fa di questi testi "una grande massa" di vera poesia. Leggendola, ripeto, non penso mai ad altri autori, me ne dimentico.

    Cristina Annino.

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    1. grazie Cristina per le tue osservazioni. Sentire la voce inconfondibile del poeta è sicuramente un indizio importante di autorevolezza.
      ciao!

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  16. grazie a te, Stefano!

    Cristina.

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