sabato 4 gennaio 2014

Gian Ruggero Manzoni






Tutto il calore del mondo (Skira, 2013) di Gian Ruggero Manzoni mette in scena la vita quale luogo del perpetuo conflitto e del martirio. Assumendo il punto di vista del testimone-superstite –  ossia di colui che ha visto dall’interno l’orrore che c’è in ogni guerra, uscendone segnato, unto come un cristo, ma capovolto, un benedetto dalla miseria e dalla violenza – Manzoni sceglie due momenti emblematici (un episodio sul fiume Dnepr, tra russi e tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, e la battaglia di Alesia, dove Cesare vince Vercingetorige) e ce li racconta attraverso gli occhi di due ragazzi, tanto più veri quanto più il loro profilo si perdere nella finzione. Il primo, infatti, è il protagonista de L’infanzia di Ivan, film del maestro Andrej Tarkovskij, uscito nel 1962; l’altro si chiamava Lucinio Curione: inviato ad annunciare la vittoria romana sui Galli, non giunse mai in capitale e di lui non si seppe più nulla.

L’interessante sta dunque anzitutto nella scelta di raccontare la realtà più cruda che conosciamo –  la guerra – attraverso l’arte cinematografica oppure, nel secondo caso, tramite una memoria non  documentabile, così tanto da mescolarsi con l’immaginazione e la biografia del poeta romagnolo, anch’esso testimone-superstite di una guerra, quella serbo bosniaca, nella quale rimase ferito da una scheggia di mortaio, a Zenica, nel 1994.
L’arte, sembra dirci il poeta-guerriero, è l’unico racconto credibile sulla realtà, l’unico in grado di entrare nelle piaghe e nelle gioie più profonde degli esseri e delle cose. Una posizione non lontana da Heidegger quando scrive che l’arte, e la parola in particolare, mette in opera la verità dell’ente, lascia essere gli enti nella quiete del loro non-nascondimento, nel loro temporaneo incontrarci (L’origine dell’opera d’arte). E se questo incontro non è mai pacifico, nella misura in cui ci scardina dal consueto stare presso agli enti, che cosa meglio della guerra ci risucchia nella sua apertura, chiedendoci ragione del nostro esistere? Arte, sia ben chiaro, non in quanto fenomeno estetico, bensì quale fatto in cui la verità si lascia incontrare. La guerra, in questo senso, è un’apertura essenziale al pari dell’opera d’arte, che ci scuote, ricollocandoci nel precario che spetta ontologicamente ai mortali interroganti. Tutto il calore del mondo è infatti anche un libro sull’interrogare, sul senso del nostro abitare la terra, feroci e dolcissimi, ignoranti e prossimi al verbo divino. Alla domanda hoelderliniana, “perché la poesia nel tempo della povertà?”, Manzoni risponde, ancora con Heidegger, che bisogna riconoscere questa miseria fino in fondo perché essa, in quanto abissale, conserva “le tracce degli Dei fuggiti”. 

Questo è lo spazio del Sacro che Manzoni ci addita spesso nel libro, con la sua voce a volte blasfema (“È quindi Dio che sgozza il porco o è la consapevolezza dell’umano?”), sempre materica, se non carnale (“Lenta la stagnazione che carezza i fianchi, dove ti trascini, sempre conscio della buca o dell’inciampo”), un “sacro” pronunciato minuscolo, “divenuto casa del tutto e del niente”, labirinto prima che spazio del senso, maceria piuttosto che tempio. Egli – come tutti noi, del resto – scrive infatti dopo Auschwitz e Treblinka, linea tragica che unisce l’Europa di oggi molto più della radice cristiana e dello spirito illuminista. Eppure, proprio perché Manzoni pianta i piedi in un profondo che trapassa il moderno, non si accontenta di risolvere l’umano nella sua storicità, per quanto radicalmente violenta. La poesia manzoniana, come detto, svolge appunto una funzione ontologica, quella di dare voce al sacro abissale, talvolta infettandolo con la bestemmia – che è preghiera del mistico, quando nasce dalla domanda radicale sul perché il dolore – e articolando il discorso in una poesia spesso antilirica, che è voce del canto consapevole della miseria spirituale tardo moderna (ma non mancano momenti di alta classicità: “Del biondo di quei capelli fecero corona di spine, mentre, del suo collo, ciondolante ossequio a un cardellino impagliato”).
Per questa ragione credo sia corretto parlare di poesia religiosa a proposito di Gian Ruggero Manzoni, vicina in particolare al Libro dei Salmi: anche in essi, l’umano si mostra nella sua plurale fatica, nella pratica colpevole quale via per la redenzione, nell’esperienza del peccato come incontro con la Verità. “Prega per noi – recita il coro nell’infanzia di Ivan – che il suo fragile corpo divenga l’affanno e la condanna di quel boia alto e spietato”.

Tutto il calore del mondo  contiene più di venti disegni (acquerelli e chine) di Mimmo Paladino, essenziali figure in cui la storia sfuma nel mito, a volte dominate dalla gioia coloristica propria della transavanguardia, altre volte governate da un segno nitido, simbolico o evocativo a seconda del passo testuale di riferimento.



Dalla sezione Il fiume di betulle 


2

L'acqua è uscita dalle sponde e fa da letto alle radici di betulla.

Il gibbo che ti gonfia le spalle scivola da spia nel mondo degli adulti. Non comprendo la disumana volontà di sopraffarsi, ma quella mi abita con voce che non mi appartiene, perché esce tronfia e plasmata.

Forse che sia innata l'arroganza degli uomini? Forse che sia anch'essa santa?



3

Mi portarono davanti a una rastrelliera d'attaccapanni e m'imposero
di scegliere
quello a cui impiccarmi.
Furono un cappio di ferro le dita della levatrice, e in quel momento
mi ritrovai a carezzarle le ginocchia da lavandaia, che aveva da secoli
quale inciampo del mestiere di lavorare e lavorare.

Disse il boia: "Mein junge verbringen sie unvergessliche Momente... "1
in un tedesco storpiato dall'ucraino.

Feci il passo e mi consolai, avendo informato i miei compagni.


1 “I miei giovani trascorrono momenti indimenticabili…”



17

Per prime gocce sparse in ferma di vento, poi più fitte, quindi il sempre più lento
battere dell'acqua. Uno squarcio, poi altri, da dove filtrano i raggi
di un sole invernale. Imporsi sotto la pioggia, accettarla, farsi battezzare.
Ora il cielo si è richiuso in un grigio sacco, ma, all'orizzonte, la bassa linea verde,
oro e rosa, di un tramonto annunciato.
Spere di luce tagliano la natura in un obliquo ormai orizzontale.
Le ombre si allungano. Le forme di esse non sono più umane, ma torbidi casi.
La verticalità si fa desiderare, in questi giorni di trapasso.
Quel tuo fiume, fanciullo dell'Ucraina, ti dava pesci e suggestioni per masturbarti.
Non necessita il pensiero ai genitali di una femmina o di un maschio
per raggiungere l'orgasmo. Già tutto è dato, se scorri i mutamenti delle nuvole,
l'inseguirsi dei venti, il turbine gelido che ti carezza l'impermeabile.
E tu stai, con la mano sprofondata fra le gambe, in piedi, in fronte
all'acqua, mungendoti o sfregandoti... maschio e femmina... in quell'apice che fa compagnia
alla solitudine di una carne esposta allo scorrere rapido, indifferente, dinamico
della cupola che ci sovrasta.
Toccarsi, partorire umori e lacrime, ridare acqua all'acqua che scende , indisturbata.
Bere acqua, compensare l'ammanco, nella continua trasfusione tra nubi, carne, lago,
cellule, sangue, tramontana, neve, ghiaccio, denti nell'altrui pancia,
liquidi, che si prestano al guado. Un pianeta al carbonio quale base
della nostra chimica organica. Allotropiche formazioni intermedie.
Acidi grassi. Diamante e frattaglie, ovunque acqua e carbonio, prodotto all'interno di stelle
che trasformano i nuclei di elio in quella C assoluta, gravida, obesa, smagliata
tramite un processo Triplo Alfa. La Trinità dell'Origine, nell'omega del perenne frammentarsi. .



dalla sezione Dagli scavi di Alesia


IV

La domanda può avere risposta?

Se dall'assoluto ti fai invadere è inevitabile, perché ogni quesito
viene immediatamente risolto. Non potrai dire a parole. Il tacere ti sarà
compagno. Ma saprai che tutte le domande hanno un esito, e ancor di più
se sei nell'ignoranza
o nella semplicità del fanciullo, nel digiuno, o nell'urina dell'impiccato.

Gli assedianti di Alesia divennero a loro volta assediati.
Questa la condizione umana. I ruoli sempre mutano, così che da fedeli
si diventa dèi, così che dio, in te avulso, incombe su chi ha eretto gli steccati,
in un ribaltamento continuo di ansimi, in un mutare perenne di abiti, di allievi, 
d'insegnamenti e di parti.



V

E ancora... nell'unità dell'infinita posizione con cui la natura conferma se stessa
(e dona), ritrovo la piega madre, cucita nell'ovest.
Al crepuscolo, il mondo schiaccia le ombre annegate (per differenze)
in una brocca di carbone. Infinita posizione delle posizioni, colui che è fugge da codardo
e il nulla, padrone dei lombi e del perdono, infligge il colpo, che rende
immortali ma non armonici... pur sempre nel dirsi comete o predoni.

Che duellare magmatico e solenne! Sole e luna, schermati dalle nubi,
in quel grigio, che sempre più induce a settentrione.



VI

Le tortore entrarono dal cielo in quel tempio del ricordo
e lo abitarono per millenni.
Una chiesa senza tetto diviene altare che si coniuga col nome dell'intero.
Il racconto (di ciò che sembra vita) scorre sulle pareti muschiate
come fosse una via crucis, un andare della croce, un procedere di alleanze
o di tormenti... di parole, ma anche di silenzi.



XXIII

E così urla il porco, quando lo inseguono per scannarlo. Urla come un cristiano
prima della decapitazione.
Lui se ne accorge che lo vogliono sgozzare, ancor prima che aprano la porta
della piccola stalla dove vive discreto e gioioso, tra i suoi liquami e la lussuria.

Urla il porco... in sanscrito e in aramaico.

I palmi degli esecutori sono di cuoio. Gonfi, ruvidi, incisi da rughe, da
setole, da linee marchiate di nero, anche dopo il catino o dopo le pomate
che ti passa il farmacista, per ammorbidire il danno e i calli, la pena e l'ustione.
Ma gli esecutori non riescono a chiudere del tutto il pugno, perché lo
spessore del cuoio è tale, che al massimo possono stringere con forza l'asta di una vanga,
il grosso manico di una mannaia o il coltello da beccaio, puntato alla gola.

Quei palmi sono di chi ha sempre lavorato di fatica, dei contadini, degli
operai, dei meccanici, dei veri poeti, degli asini umani. E il porco
li conosce bene, e sa il perché lo vengono a cercare.
La caldaia è già sul fuoco; l'acqua bollente servirà ad ammorbidire la pelle
del maiale, così da raderla, non appena sollevato, appeso a testa in giù, quindi
spaccato in due, prima che ogni verbo di speranza, gli venga tatuato sul costato
quale liturgia dell'insulto e dello strazio.



Gian Ruggero Manzoni è nato nel 1957 a San Lorenzo di Lugo (RA), dove tuttora risiede. Poeta, narratore, pittore, teorico d'arte e drammaturgo, tra il 1982 e il 1983 è redattore della rivista “Cervo Volante” di Roma, diretta da Achille Bonito Oliva ed Edoardo Sanguineti. Insegna poi Storia dell'Arte presso l'Accademia di Belle Arti di Urbino dal 1990 al 1996, quindi, lasciata la cattedra, come contrattista presta docenza presso accademie e università italiane e straniere. Nel 1980 pubblica Pesta duro e vai trànquilo/Dizionario del linguaggio giovanile con Feltrinelli. Nel 1997 dà continuità alla ricerca riguardante i nuovi linguaggi emergenti pubblicando Peso vero sclero/Dizionario del linguaggio giovanile di fine millennio edito da Il Saggiatore. Come teorico d'arte, pittore e poeta partecipa ai lavori della Biennale di Venezia negli anni 1984 e 1986, edizioni dirette da Maurizio Calvesi, curando, assieme all'amico Valerio Magrelli, la Sezione Poesia per Arte allo Specchio. Dal 1986 al 1998 dirige la rivista d'arte e letteratura Origini. Ha al suo attivo oltre 40 pubblicazioni. (dal Giornale di Vicenza 18/10/13)

Nato a Paduli, in provincia di Benevento, Mimmo Paladino passa la sua infanzia a Napoli. ?Muovendo dal clima comune del “concettuale”, la prima fase dell'attività dell'artista s'incentra principalmente sulla fotografia. La sua prima personale si tiene allo Studio Oggetto di Enzo Cannaviello a Caserta, nel 1969. Gli anni a cavallo tra il '78 e l'80 sono da leggersi come un periodo transitorio tra la posizioni concettuali e la rinnovata attenzione per la pittura figurativa. Utilizza anche l'incisione e molte altre tecniche per rappresentare il proprio “mondo interiore”, primordiale e magico, sperimentando diverse tecniche tradizionali: disegno, pittura, scultura, mosaico, incisione, immagine filmica. Ad “Aperto '80”, nell'ambito della Biennale di Venezia, il critico d'arte Achille Bonito Oliva propone la corrente della Transavanguardia, di cui fanno parte Chia, Clemente, Cucchi e lo stesso Paladino. Del 1992 è l'installazione permanente Hortus conclusus nel complesso universitario di San Domenico a Benevento. Negli anni successivi si dedica più intensamente alla stampa d'arte ed esplora altri settori, come quello della ceramica e della terracotta. Nel 2010 Mimmo Paladino ha firmato la scenografia di work in progress, tour che ha visto riunirsi, dopo trent'anni, la coppia Lucio Dalla e Francesco De Gregori.


4 commenti:

  1. non è certo una poesia facile, quella che solleva interrogativi e ci fa inabissare nel fango, che ci fa sentire il puzzo di orina e la stretta dell'impiccagione ...la visione, più che l'arte, mi sembra la parola chiave di questa lettura che sembra non voler farsi penetrare.
    l'urlo del porco prima della decapitazione risuona!

    RispondiElimina
  2. Spesso, Carla, quando in poesia si narra, succede quel che dici, cioè non è importante penetrare, quanto seguire le immagini in un'operazione quasi filmica, ed è appunto da un film che tutto parte. Immagini e suono, nell'urlo, appunto, di quel porco.

    RispondiElimina
  3. credo di capire quello che mi stai spiegando, le figure poi cambiano a seconda dell'immaginario, e rimane un urlo doloroso...
    bisogna entrare in questo passaggio per poterlo capire
    e l'esperienza, come al solito, ne è veicolatrice

    un saluto

    RispondiElimina
  4. che bella scrittura..
    non è facile narrare e descrivere così, senza, mai, abbandonare la via del pungolo, dell'immagine che rimanda, della parola che spinge e entra..
    della poesia, insomma..

    RispondiElimina