domenica 10 novembre 2013

Alessandro Polcrì




Sin dal titolo, Bruciare l’acqua (Edizioni della Meridiana, 2008), Alessandro Polcrì evidenzia la sua postura di credente eretico, che sfida il numinoso, pur temendolo, pur amandolo. Un ossimoro frequente in chi crede per necessità interiore e vive la propria intelligenza come se fosse la leva capace di farlo sprofondare nel nulla in ogni momento. Forse per questo, il  fuoco e l’acqua del titolo vanno letti con tutta l’ambiguità propria ai simboli: il fuoco dell’inquisizione (della violenza) è anche il fuoco della purificazione (della salvezza) e l’acqua della benedizione porta nelle pieghe la morte per diluvio, tanto che potremmo pensarli incrociati come i legni del Cristo sul Golgota, cifra del viaggio narrato in questo libro, viaggio sì dantesco, ma in orizzontale, e non nel deserto dell’espiazione, bensì dentro il recinto della casa, della domus romana, per la precisione, dall’esterno al cuore, dalla zona liminare (Fauces) a quella Exedra, che costituisce la meta ultima in cui la pace, pur parziale, si dà nella conciliazione dialogica fra anima e pensiero, fra eternità e caducità.

In quella porta infernale raccontata nel primo capitolo, Polcrì entra spesato, diviso in corpo che va e coscienza che lo segue, lo interroga, agendo in uno spazio reso vivo dalla luce e dall’ombra, necessarie entrambe a dire del tempo la sua duplice maschera: la seduzione del futuro e l’orrore di cui è fatto il passato; ma anche: la paura del non-ancora e la quieta certezza del già-accaduto e del mai-più. Di nuovo la figura del doppio, degli opposti che si cercano senza annullarsi, emblemi dell’inspiegabile, presenza pervasiva e polimorfa in questo libro.

Lo stile non fa volutamente i conti con l’ombrosa selva esistenziale messa in scena, con le crepe del vivere: l’autore adotta infatti una sintassi alta, tonda, raramente franta da cacofonie (spesso ottenute con inserti di lingue altre: l’inglese, il latino…) o a-capo irregolari. Polcrì insomma crede nella lingua, nella sua alta funzione morale e civile; ma, essendo un moderno, la crepa la mostra lo stesso, anzi ci si incista, dando al messaggio il compito più gravoso: quello appunto di portare le stimmate, di mostrare i chiodi; senza tragicità, piuttosto con ironia. La si vede per esempio nella nominazione di funzioni corporali poco cortesi: “ è come ricondurre / tutto il raro fiato esterrefatto / al naso dopo uno starnuto / o ringhiottire il filamento di uno sputo”  e nell’antisublime di un passaggio come questo, dove all’anima “spetta il lambire, lo struscio, / il tip tap / che s’appropria della superficie”.

Anche il mito non è escluso da questo viaggio; ecco allora l’abbraccio della dea, forse Afrodite amorosa, e Poseidone, dio del mare e dei terremoti: due divinità in cui acqua e fuoco convivono e perciò perfetti per accompagnare l’io tremulo in questo avanzare verso il cuore di tenebra dell’incontro con se stesso, alla fine salvifico, ben lontano perciò dell’inquietudine immedicabile dei moderni senza dio, come Conrad o Beckett, ma non per questo impraticabile, se chi lo intraprende affonda le radici nella tradizione cristiana.



Da Bruciare l’acqua (Edizioni della Meridiana, 2008)


V.

Traccio un cerchio sul bianco
foglio come usavano in antico
i geomanti sulla rena
e butto lì parole e le assedio col pensiero
per dar loro una forma che tenga.
Fuori del segno non c’è
commistione di verbo e di significato
ma solo il guazzo fonico prenatale,
un tempo sì angelico messaggio,
ora solo chiacchiericcio della mente,
occhio che si apre e non guarda,
scarpa slacciata infedele al passo
che si ostina ad avanzare,
labbro leporino che si oppone
al continuum della voce modulata,
incisivo sbriciolatosi
per troppo ingordo morso
su cui la lingua indugia
distratta dal suo vero corso,
albatros che canta,
malgrado l’amo nel suo becco
resto di un pesce sfuggito all’inganno.


umbrifera violenza

Non ti domandare a che valgano
gli spazi scuri tra le zolle della terra
dove mai la luce s’intrattiene di passaggio,
antri voti vote polle che risuonano
strano al cieco colpo del vomere,
si ribaltano e si mischiano vani,
l’acqua li schiva ma li sovrasta la lucertola
protesa al baldo raggio del sole.
Solo il seme seminato vi si lascia vivere
per poi ergersi al di sopra
gettando roco l’ombra che discaccia
il freddosangue viso di quell’ospite
osteso sul vuoto senza forma
che ha generato silenziosa la vita.



Sotto la coperta della terra il corpo
è raggiungibile dal pensiero e dalle lacrime


Cos’è più forte di una perla d’acqua
penetrante tra le spanne del catrame
strame sopra quel carcame ribollente?
Cos’altro può diventare il corpo,
incarnita e debole gerla,
se non, dentro l’urna ancora calda
degli spasimi mondani,
una gorga di sodale umore
dove tutti buoni o cani
diveniamo acque silvestri?
Non tremeremo più sotto la luna
allo scrollarsi al vento d’una canna.



memoria

Si ricorda forse il ramo
del flusso che lo ha attraversato
poi che il vento s’è acquetato?
o la riva del fiume
trattiene ancora tracce
della carezza delle acque?
resta all’abbraccio dell’onda
memoria del taglio perpetrato
dallo scafo passeggero?
e l’asfalto appena penetrato
dallo zoccolo conserva
forse pura quella forma?
e tu, che mi sei compagno,
quando sollevi la tua testa dalla gogna
ti rammenti mai di esser nato schiavo?



passeggiata su una superficie

B

Terra invisibile e confusa
è quella che sottostà del piede
alla pianta che si spande sulla neve:
l’occhio non la penetra
sfugge alla luce che rimbalza briosa
sul clangore del bianco,
ma il sasso vi s’acquatta
coperto dal mantello sensibile alle suole:

io lo fendo e lo imprimo di una traccia
che si scioglierà col primo sole.



from soul to body


Mi auguro di trovarti mansueto al colpo,
di vederti ritto e fiero di fronte all’ondata,
di ascoltare le tue parole d’acciaio
temprate dall’esperienza del dolore;
mi aspetto che tu abbia della corsa
una visione completa
e del macabro rituale una nozione minuta;
non temo che ti scosti dal ciglio della strada
che hai progettato per te medesimo,
né che poi ti perda
nel fitto dei tuoi umori giornalieri;
ti intravedo sulla cima
colpito da furiose libecciate
che neppure a te il tempo risparmia,
a te fermo e industrioso e muto
come le api nella affollata arnia mute.

Se colpo ci deve essere
non temo che tu sia incerto
dove accettarne il vibrato
così che calmo ma esperto
tu opponga a quella atroce insistenza
del tuo fianco il lato
mai veramente stanco.
E quando ti volgerai intorno
a cercare il contatto dei miei occhi
per tentar di condividere la mole
che ti ha reso puro
sarò dove meno te lo aspetti
ombra sul muro
nascosta sulla soglia del sole.



Congedo

Ho cercato di te
tutte le immagini che ho potuto,
sei stata ogni evanescenza:
l’ombra che passa,
l’ultimo smalto di luce
sull’occhio del morituro,
la scritta erosa
sul muro millenario
e la cifra cancellata
sotto le parole vergate
sulla lista della spesa;
l’esile vita di una goccia
che toccando nella pozza
il fondo motoso si disperde
come fiamma invano immersa
a bruciare l’acqua;
ma sei sempre rinata altro,
altrove nascosta,
accennata appena
quando hai voluto concedere
di te un qualche sprazzo
della veste con cui adorni
le tue carni misteriose
che non lasciano orma
o traccia e non segno di passaggio
ma solo un’eco spirituale,
un maestrale di spiriti gentili,
di illuminanti amnesie
e di fiotti di energia
che doni a chi non sa
di ricevere, né può saperlo;
cosa sei e non sei
è tua esclusiva padronanza:
solo il mare possiede vera
la percezione della riva,
chi approda invece è accompagnato
dalla corrente proprio dove
il tocco dell’onda sulla sabbia
è palmare, estesa, sensazione preclusa
al piede che incide e non carezza;
quanto a me posso tagliare il tempo,
non altro, che mi resta con coltelli-parole
lame fendenti nel corpo vuoto del giorno,
ma a te sola spetta il lambire, lo struscio,
                                                                 il tip tap
che s’appropria della superficie
senza mai manometterne
la pura pellicola invisibile.

Alessandro Polcri (Arezzo, 1967). Vive tra New York e Sansepolcro (AR). Si è laureato all’Università di Firenze in Letteratura Italiana del Rinascimento. Ha conseguito un PhD in Letteratura Italiana alla Yale University ed è ora professore associato di Letteratura Italiana alla Fordham University di New York.  È redattore di Interpres (rivista di studi quattrocenteschi) e condirettore della rivista Italian Poetry Review e di Ungarettiana collana di poesia, traduzioni e saggi. Oltre ad avere curato alcuni volumi di saggi e avere pubblicato numerosi contributi di àmbito rinascimentale (tra cui saggi su Pulci, Boiardo, Ficino, Folengo, Cosimo de’ Medici, Martino Filetico, il dibattito sulla Magnificenza a Firenze), è autore del volume Luigi Pulci e la Chimera. Studi sull’allegoria nel “Morgante”, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2010 (menzione speciale al Premio della Modern Language Association Aldo and Jeanne Scaglione Prize for Italian Studies, 2011).  Si occupa attivamente anche di poesia contemporanea: oltre al libro di poesie Bruciare l’acqua (prefazione di Alberto Bertoni, Firenze, Edizioni della Meridiana, 2008, finalista al Premio Mario Luzi 2009) è presente nella antologia Poeti italiani negli States (numero speciale della rivista In forma di parole, XXX,4, 2010). Con una selezione di inediti dal nuovo libro è stato finalista al Premio Bazzanopoesia 2010.

4 commenti:

  1. Bellissime poesie, brillanti anche del suono puro della lingua toscana (e non è merito di Polcri), ma merito suo, e rilevante, è di renderci chiara ogni difficoltà interpretativa di certe emozioni complesse, nelle quali il tono è molto alto.
    Cristina Annino.

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  2. mi è "sfuggito dalla penna" ammettere il piacere che da ogni volta la lettura critica di Guglielmin, che anche qui ripropone la sua acutezza. grazie.
    Cristina Annino.

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  3. grazie a te, Cristina.

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  4. Sì, è vero: è sempre alta la qualità degli autori proposti ed illuminante, oltre che attenta, la presentazione di Stefano Guglielmin.
    Colgo l'occasione per rivolgere un caro saluto ad Alessandro Polcri.

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