sabato 3 maggio 2014

Gianmario Lucini


Con le due chiavi introduttive, una di Maria Zambrano ("bisogna trasformare il male in bene; bisogna estrarre dall'oscurità la luce"), l'altra messa in incipit quale avvertimento "al lettore", in Hybris (CFR, 2014), Gianmario Lucini ci invita a tenere ferma l'attenzione anzitutto sulla cura alla malattia del moderno che questo libro si propone di essere. Malattia focalizzata, fra gli altri, dal primo Leopardi, commisurandola all'arido vero della scienza, che vorrebbe farci da stampella una volta perduta la Natura. Quella Natura madre dolcissima, come scrisse Pascoli nella prefazione a Myricae, e che Lucini coniuga con la tensione religiosa e quella civile, sempre fondanti nella sua poetica.

La volontà di chiarezza spinge il Lucini dell' avvertenza a uno stile piano, ma non arrendevole, vicino al Baudelaire dei Fiori quando si rivolge all'''hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère". A governare l'intenzione etica, tuttavia, non è la disperazione romantica del parigino, bensì l'amore verso il prossimo, la fede nella possibilità del contatto messa in opera dalla parola. La poesia diventa così il banchetto comunitario, l'ostia consacrata dal dolore, l'agape che il poeta, staccandosi dal gruppo di poetucoli da studiolo (sui quali sparla nell’ Intermezzo), condivide con "voci di masculi et de foeminae / scollegate dal centro animale", per educarli a ritrovare la luce. Dante pedagogo sta nei paraggi, guida l'allievo, ma non sino a spingerlo a mortificare l'hybris, necessaria alla rivolta dal torpore in cui il capitale ci ha gettato. Marx, tuttavia, viene tenuto a banda nelle sue spinte rivoluzionarie e così uno dei suoi riferimenti, quel Fauerbach che, ne "L'essenza del cristianesimo", sostenne l'identità fra teologia e antropologia. Non che Lucini neghi l'esistenza della materia e nemmeno la fragilità degli uomini, usi a inventarsi degli idoli per sopravvivere all'orrore della morte. Ma una cosa sono gli idola baconiani, un 'altra la verità di fede, l’esistenza di Dio, ucciso dalla presunzione e dalla noia, un Dio diventato "impraticabile" scrive in Nenia, poemetto dedicato a padre David Maria Turoldo, che da sempre accompagna la sua scrittura e lo ispira nel rigore virtuoso contro i mali del mondo.

Basta leggere le prime venti pagine per cogliere tutta la complessità culturale di Lucini: c'è l'amore francescano per il Creato e il suo Creatore, c'è il Pascoli pervaso dall'unità mortale culla-nulla e dall'idea che la poesia si scriva dal ciglio della tomba, e c'è il viaggio dantesco tra le macerie del contemporaneo oltre che la sua propensione al plurilinguismo, qui inteso nella polifonia dei registri ma soprattutto nell'agglutinazione interlinguistica. Su quest'ultimo piano, superata la porta infernale, Lucini non lesina affatto: latino, italiano arcaico, francese, lombardo, tedesco, inglese, entrano in campo con grande abilità d'amalgama fonetica, le lingue moderne con funzione ironica e/o spaesante, le classiche per tirare in gioco la valenza autoriale, la forza di resistenza alla deriva che l'antichità ci ha tramandato.

Nelle due sezioni, dedicate ciascuna a un momento della storia ebraica – L' Exodus dalla cattività egizia, fino al deserto e alle tavole mosaiche, e la figura complessa di David – il plurilinguismo cessa, in favore di un'espressione sublime, degna della materia trattata. La scelta tematica vuole essere fondante: tutto questo travaglio, ci dice il poeta, è stato necessario per "plasmare una folla e farne un popolo", con ciò additando la via eschilea del dolore quale conditio sine qua non alla conoscenza, a un destino di partecipazione che ci tempri e ci avvicini l'uno all'altro. Il monito è all'Italia di oggi, non ancora nazione. In effetti, il nostro Paese trovò soltanto in rari momenti una forte condivisione ideale. Primo fra tutti la Resistenza, poi tradita da una ricostruzione che fece gli interessi di alcuni a discapito dei molti. Del resto, sulle disuguaglianze e le ingiustizie italiche, Lucini editore non ha mai smesso di operare, pubblicando antologie contro le mafie e gli speculatori d'ogni sorta. La sua stessa produzione poetica mette bene in rilievo la tristezza dell'inciviltà italiana. Ricordo, a tal proposito, Sapienzali (puntoacapo, 2010) dove sono presenti sia il mondo offeso contemporaneo con i suoi carnefici e le sue vittime, e sia – come si evince dal titolo – quello biblico, in sintonia con Hybris.

Vadam ad portas inferi è la sezione che apre con maggiore evidenza all'autobiografia, un resoconto sulle cose fatte e da fare, sulla bellezza della natura, sulle persone conosciute e amate, "dentro un tempo del delirio e del silenzio / gridato che divelle ogni certezza / tempo di lenta agonia", che non ci dà scampo. La voce del poeta diventa più intima e cupa, ora che anche "Dio guarda altrove" e in cuore sente che l'inverno durerà millenni prima che un nuovo Cristo ritorni.


La penultima sezione, Il canto della nottola, ribadisce la forza originale del Cristianesimo, contro la violenza del sacro, propria del paganesimo: attraverso il dolore di Prometeo, Aracne, Tantalo, Sisifo e di eroi come Agamennone e Odisseo, Lucini ci racconta l'imperfezione degli dei olimpici, spietati e capricciosi, mentre il finale del libro, di "questo lungo viaggio dentro l'uomo", ci parla dell'Italia come di un "Paese di morti", di corrotti e ruffiani, di scrocconi e lesto anti, una Gomorra insalvabile al quale egli si offre in sacrificio, più come un Orfeo dilaniato dalle baccanti che come un Cristo crocifisso. E come Orfeo fatto a pezzi, anche Lucini non smette di cantare, donandoci, nell'ultimo testo, una parola attraversata da "un sogno", un'ultima speranza incarnata nella poesia, che sappia far rivivere l'innocenza dell'inizio, che mantenga viva la memoria di un'età "quando ancora il tempo era bambino". 

(Stefano Guglielmin, Prefazione a Hybris)


I

Pater filius noster che dentro le stelle riposi
mentre maraviglia ci trastulla
interi orizzonti occupando
e tutti i suoi abitatori et l’amara
scorza della felicità che ancora
dalla forca pende dopo l’ultimo
sterminio al suono di violini e grancasse

noi grati Te laudiamo per l’infinite occasioni d’alberi et colori
et pianure et erbe dal vento mosse e il fantastico
lucore di petali e petali che brillano
e petali e l’infinite iridescenze di messer lo frate sole;
e anco de tutto il ciarpame che c’imbriglia
dentro la tomba del mondo
nostro efebico e gelato,

per lo zirlire di numeri et indici e profitti e per questa
compatta salvezza di ragioni e prospettive,
noi Te santo facciamo al chiarore dell’ultima face,
per onne tempo grati de lo regno tuo et de la tua voluntate
perché ci libereremo dal male un minuto appena
prima di sora morte nostra corporale,
senza poter capire lo spiro di chi
è già defunto e il vagito primiero
del neonato che ne eredita lo spazio

su questa terra

per proclamar Te onnipotente, eterna
ignava nostra
creatura.

*

V

Al quinto dì del tormento già s’allenta il resistere,
già indoviniamo i segni de la disfatta
e de l’etterno sussistere.

Uno dice che necesse metter sé ai ripari,
co-ordinare riparo et salvazione,
confluire al vero duce
angelo o demone purché armato di Kalashnikov.

Un secondo urla rauco da un microfono
con una cert’aria non proprio civile
ma cupo si leva dalla folla un tuono.

(Dunkel!)

Un terzo lo stracula ma in quel momento
inizia a dirotto la piova.
(Sono lacrime di un Dio fuori campo
che mai intervenne nel dibattito).

Si torna a frotte frottole e brandelli
e fatti e strazzi nelle case
con la matura convinzione che qualcosa
come dovrebbe non funzioni,
e nessuno sa dove andare,                 et che cosa parare.

El gira minga, el gira no. Si levano
commentari mediatori,
si addita l’ostracismo nemico da battere, la chiarità
bene supremo und drei
oder vier evidenze di riserva
che nessun paraculo oserìa confutare.

Proprio ora inizia la svaccata delle cinque
e la democrazia per oggi è a salvazione.


***

X

Sono io il luogo dell’inizio
la chiave, l’insonnia, la face
l’èffeta, l’alfa, l’omega,
il fuoco rubato ai primordi

e posso volare più in alto d’ogni osanna
posso creare et creando distruggere
con un semplice gioco di prestigio
barare

aleph
inizio d’ogni bene
al di sopra d’ogni bene
e d’ogni male. L’orrore

mi consacra signore dell’era.

***

Da Exodus

X

Quarant’anni di stenti e di tormenti
per plasmare una folla e farne un popolo,
dal nulla uomini liberi
da un refolo di vento la durezza di una rupe.

Ci volle un Dio, una gente, un condottiero
balbuziente e il suo bastone, un deserto
e tutto fu necessario
ogni passo, ogni voce, ogni comma.


da "David"

III

Sapevo la sagoma lenta del gigante.
Stava lì, piantato fra due eserciti
come un terribile sogno divaricato.
Era l’incubo degli orsi e dei leoni,
era la tormenta
delle grame stagioni nei pascoli d’inverno.

Non mi fu difficile affrontarlo: di lui
conoscevo il digrigno bavoso
e la caverna della voce
conoscevo la sua forza di leone e l’arroganza di orso
cento volte spezzati sulle colline di Bethlem;

Gionata riluttando
non ebbe che questo mio sorriso
da offrirgli in sacrificio, avanti la disfatta.

Ma quando s’infisse il labbro della pietra nell’occipite immenso,
sorsero i nostri guerrieri dal niente
come un’onda immane spazzarono la piana
e la collina riarsa dal terrore.

Per me non fu che un brivido,
il versetto d’un Salmo e questo
mio braccio roteante nell’azzurro il braccio
di un altro, proteso nell’imperio del fulmine
per collocare al suo posto la pietra
levigata dalla pioggia di millenni.

Perché si sappia che nulla
fu lasciato al caso
- uomo, pioggia, pietra -.


da "Nel segno di Qohèlet"

Ciò che è storto non si può raddrizzare
né ciò che manca si potrà contare”:

(abbiamo ucciso dèi per questo, fracassato
teste di pargoli contro le pietre,

siamo impazziti di dolore e l’azzurro
più non ci sorride)

non ritempra più il verde slanci d’amore
chini come schiavi a scontare la vergogna

nella tristezza infinita del paesaggio
ridente della primavera...

Dove c’è molta sapienza c’è molta tristezza
se si aumenta la scienza si aumenta il dolore

ma è tempo, questo, dell’arroganza
prima della disfatta.



da "Vadam ad portas inferi"


Tutti sanno il clan dei Piromalli
e i Pesce padroni della grande Piana1
o i Marcì della Locride, i Morabito
gli Strangio di San Luca, i Pelle, i De Stefano

nomi sussurrati a mezza voce nelle case
di ogni calabrese, o i Crea, i Vottaro,
clan senza onore di ladri e delinquenti
e insieme cognomi che non ebbero mai voce

– cognomi di miti e di bestie feroci
allevate a pane e prepotenza,
cognomi di operai e contadini
cresciuti a pane e deferenza –.

Sono i cognomi della cronaca,
figli devianti di quest’Italia assente
perduta nei suoi ineffabili circenses,
impoetici cognomi, umili, ignobili

– ma la poesia li deve pronunciare.


da "Il canto della nòttola"


Hermes, se lo chiedi mille volte lo ripeto
che il comando è onorare chi ci fa del bene,
ma queste parole sagge e un poco doppie
lascerei volontieri ai tartufoni
che passano il mattino all'incensiere
e di notte insidiano le alcove.

Il mio istinto è sincero e brutale: sono
impostore e violento, uno che
prende quel che vuole fin che gli va bene
senza farsene scrupolo e ammazzo
e insidio le mogli d’altri con la brama
di un animale. Ma non insistere
con la tua frusta morale, Hermes:
non sei così sciocco e sai che lo dico
soltanto per evitare le frustate

– ma tu, che lo sai bene, lo taci,
per dare sfogo al tuo sadismo giustiziere –.

                        (Issione)

da "Ad epilogo"

[...]

Non vale dimetterti se ci sei dentro
non vale neppure indignarsi e urlare
chiedendo in piazza il pane e la vendetta
agli dèi della chiacchiera,

non vale dopo gli anni del silenzio
al torpore di promesse invereconde
non vale abbandonare il carro dei perdenti
per dire “non nel mio nome”, dopo
l’assenso omertoso, il dileggio
per chi ancora osava un pensiero,
per chi pagava l’ignavia del vostro
stolido privato
con il travaglio d’una vita schedata;

voi che avete accettato ogni stortura
col mugugno d’osteria, voi che col voto
avete avvallato ogni ricatto
ogni mafia e illegale potere,
tirando a campare, in attesa
che una briciola cadesse dal desco dei forti
per potervi accapigliare come cani, sgomitare
sognando in cuor vostro vacche grasse,
speranze di spreco al di là di ogni spreco ingozzarvi
di ogni inutile oggetto e strasazi
volere ancora e ancora volere

e poi vomitare sul paesaggio
i vostri immani rifiuti, i veleni;

voi che alimentate l’inflazione e la rapina
della finanza col vostro stesso danaro
voi che corrompete con scarpette e magliette
cibi, bevande, giochi insanguinati
i vostri pupilli – un mondo
d’oggetti che grondano sangue
di Paesi lontani, di donne e bambini
falcidiati dalla vostra rapina –, voi
che amate la durezza del cemento
e spregiate la tenerezza dei marmi antichi,

avete costruito un Paese insopportabile
dal quale si può soltanto evadere.
[...]


1. La zona, in Calabria, è detta “Piana di Gioia Tauro”.

 Qui la mia lettura di Sapienzali e la biografia.

3 commenti:

  1. dove è finita la barba? :-)

    inutile dire che Lucini è annoverato da tempo tra i miei poeti "profetici" prediletti.

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  2. peccato che il più delle volte risulti troppo saccente (la poesia profetica).

    un consiglio per Sisifogugl: dubitare fa bene.

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