giovedì 14 giugno 2012

Alessandro Ceni




E' appena uscito: Alessandro Ceni, Parlare chiuso. Tutte le poesie. A cura di R. Bertozzi, S. Guglielmin, M. Morasso, D. Piccini, E. Ritrovato, Puntoacapo, 2012, euro 20,00. Ciascun curatore ha scritto l'introduzione ad un suo libro.

Riporto la mia lettura de I Fiumi.

L'edizione originale, edita da marcos y marcos nel 1985, non porta alcuna indicazione biobibliografica e nemmeno l'indice. Stampata in 600 copie su carta Fedrigoni, a caratteri Garamound, I Fiumi di Alessandro Ceni consta di 42 poesie, alcune senza titolo, ed è diviso in due sezioni, inaugurate, ciascuna, da un testo isolato e ordinate a decrescere dal 1983 al 1976. La seconda sezione, 22 poesie, riprende Il viaggio inaudito (Tosadori, 1981), opera prima.
   I più significativi studi sugli esordi dell'autore fiorentino, riferiscono di una "furia visionaria, alogica e irrazionalmente dispiegata" sul modello di Dylan Thomas, ma con una vocazione obliante dell'identità, anziché esaltante in direzione cosmica, un suo "crudo e sordo rituale di scomparsa", come scrive Daniele Piccini in Poesia italiana dal 1960 ad oggi (Rizzoli, 2005), riprendendo la tesi di Raboni e Cucchi in Poesia uno (Guanda, 1980). Remo Pagnanelli, sull'annuario di poesia della Jaca Book (1986) – citato ancora da Piccini – parla di "un vortice verbale che strania ogni apparente riconoscibilità mimetica e la deforma con una forza proveniente sia dalle istanze pulsionali che da una natura naturans" attraverso "la sua acuminata, immaginosa macchina metaforico-metonimica". Posizione che non esclude la dimensione cosmica o, perlomeno, l'idea che la verità si dispieghi nel selvatico divenire a cui l'identità appartiene, prima di ogni principio individuationis. Al di là delle differenze che le due interpretazioni mettono in gioco in merito alla valenza cosmica del poetare di Ceni, la regressione dell'io mi pare evidente e condivisa da entrambe. Lo si evince non tanto nel prologo, in cui, anzi, "Io" inaugura, maiuscolo, il dettato, ma già dalla poesia incipitaria della prima sezione, con quello spazio plurale aperto dalla seconda strofa: "Da qualche parte in noi / ho sentito ridere /  gli alberi ambulare sulle piante", terzina dove anche il primo verbo – ridere – può essere riferito agli alberi, e il "noi" non è che uno spazio indefinito, grembo oscuro di un io innominato, un luogo abitato da una vasta vegetazione ma anche, come recita la voce lirica immanente, una manciata di versi  più in là, tempestato di "cicogne" [che] precipitano stecchite / picchiando le carlinghe dei razzi / per far loro perdere la testa". Con ciò complicando quello spazio naturale con elementi tecnologici "intelligenti", tramite l'attribuzione dell'organo orientante al razzo anziché all'animale. Intuizione straordinaria se si pensa che i primi missili intelligenti saranno usati nella prima guerra del Golfo, nel 1991! Ad ogni modo tale poetica, "metaforico-metonimica" e surreale nell'attingere al proprio materiale magmatico, non poteva non trovare compagni di viaggio nell'orfismo tragico dell'esperienza di "Niebo" e nella regressione dell'io messa in campo prima dai novissimi e, per altre ragioni, dai poeti partecipanti ai convegni svolti presso il Club Turati di Milano, verso la fine dei Settanta.
   Poeta dunque in linea con i tempi, Alessandro Ceni, contemporaneo nella misura in cui ideologicamente fugge la civilizzazione tardo moderna, e, rispetto alle poetiche, il post-ermetismo, ma anche lo sperimentalismo materialista delle neoavanguardie, per fiondarsi invece "dove le tracce vengono subito nascoste dal verde" come scrisse la Cvetaeva; un verde rancido, il suo, "minacciato dai tonfi" e salutato da un "lugubre sole", in una dimensione complessiva dove, come scrive Luca Cesari a proposito di Milo De Angelis, si respira "la nuda e glaciale evidenza dell'essere, la sua radicale prossimità al nulla" (Anni '80. Poesia italiana Jaca book, 1993).
   Per quanto assente in Parola plurale (Sossella, 2005), Ceni viene tuttavia recuperato al suo interno nel saggio di Alessandro Baldacci, Il disprezzo del rimedio: (ri)pensare il tragico, il quale rileva che in lui "la parola emerge direttamente dallo spazio della morte, marchiata dal peso della separazione, dalla ferita dell'esistenza". Ed è bene che ancora una volta si metta in luce la vena tragica del poetare di Ceni, per distanziarlo dalla falsa impressione che egli mutui la pratica poetica dall'esercizio liberatorio-rituale della Parola innamorata, altra antologia di successo in quell'epoca, e forse necessaria, ma lontana da quel "nulla", che è vortice abissale capace di risucchiare qualsiasi stabilità, esistenziale e stilistico-retorica, che non sia la scommessa nella forza della metafora per dire-tradire quel turbinio metamorfico. E la scelta della metafora quale regina delle figure retoriche, come sostiene il secentista Tesauro nel Cannocchiale aristotelico, non soltanto colloca la poetica del Ceni de I fiumi all'interno di una koinè barocca rivalutata con le neoavanguardie (aprendo così un legame con quella stagione, almeno sotto questo profilo), ma evidenzia una sua presa di posizione critica nei confronti della scelta allegorica – promossa, a partire da quegli anni, da Romano Luperini – che ruota sulla negazione delle poetiche legate al nichilismo, in nome di una ermeneutica materialista in cui la consapevolezza del relativismo conoscitivo fonda l'approccio ai testi ma impone anche, rispetto alla prassi artistica, la rinuncia alla mistica del vero assoluto, della prossimità con l'essere disvelante che invece accompagna i poeti legati al simbolismo e all'ontologia heideggeriana. Se la metafora nomina, sub specie rhetorica, il magma dell'essere, sino a diventarne figura carnale, l'allegoria nasce già quale critica del reale, forma del giudizio, ma anche distacco dalla liricità pura, in nome di un prosaico, per quanto alto (si pensi all'Arsenio montaliano), quale veicolo della narrazione esemplare. E il percorso complessivo di Ceni, mi pare, consiste proprio nel traghettare la vitalità della metafora nel pensiero di cui è capace l'albero allegorico, senza che il primo momento sia assorbito, ma, anzi, operi nei meccanismi retorici del secondo, esaltandone lo splendore d'ogni singolo ramo.
   Affascinato dal potenziale esplosivo del congegno metaforico, per affinità elettiva con i migliori poeti della sua generazione, militanti nell'area milanese a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, L'Alessandro Ceni de I fiumi, specialmente nelle poesie più tarde, sceglie di dare voce alla natura diveniente, facendo fermentare i gangli dell'organico – vegetale, animale ed umano – sino a contaminare il regno minerale, per riconsegnarli al lettore nel proliferare metaforico-mortifero della lingua, non per risarcire il non senso del vivere, ma per rilanciarne – con lo stile – il suo continuo essenziale differire, che ha in sé l'estinguersi e il rifondarsi, ad ogni istante, della continuità temporale, un biforcarsi che la poesia segue, seminando tracce moriture ed erigendo effimere, ma necessarie, epifanie. Gli esempi sono innumerevoli, agiti sia a livello sintattico, come nella citazione dell'albero che ride (ma anche, fra i tanti, ne I cuori delle aquile, "Sta irta nelle messi / la camera controvento, / nel frutteto violabile e crudele del ritorno, / nel fuoco d'acqua che consegue / lo scambio dei sicari tra i vialetti") e sia nelle microstrutture metaforiche mosse dal "gettito / continuo di desiderio", capaci di liberare dal lutto, al modo della tragedia, per effetto catartico: "l'alfabeto si consolida in grandine in / solida luce", e, sempre in Bianco, "hai messo sonagli alla valanga". Ed è appunto il desiderio il fabbro dei suoi oggetti alfabetici e dei loro aspri suoni, dantescamente infernali, ma moderni nel loro dare vita ad un'opera circolare, policentrica, in cui non si salva la lingua, bensì l'umano tramite l'ascolto appassionato del suo rumore, in una sorta, appunto, di bagno purificatore. Il mito sia nei paraggi e si mostri ogni volta che il magma tenta di prender forma, di farsi narrazione comunitaria. Così come si muove in quei pressi la scure, per togliere fiato al racconto, per riportarlo al chaos delle origini.


Nella ricorrenza del passaggio di una stella cometa


Ecco il buio spezzacuori
e i trampolieri dei suoi sentimenti
dove un no ancora pende
con una gamba levata
sopra l'amante in silenzio
che ode rompersi
i biscotti ed assentarsi l'istante:
sbriciolato sulla superficie
El così camminava le acque.

Da qualche parte in noi
ho sentito ridere,
gli alberi ambulare sulle punte
con le cime apparecchiate d'uccelli
spalancati nel buio,
dai bisbigli
la notte notte
e frusci e susurri e sospiri,
gli scheletri orribilmente incrinare
per le fattezze di un tempo e
sperare sotto il padre mare:
nell'ora dei sogni veritieri
El premendo e penetrando
s'avvolgeva la testa.

Ecco la bocca piena del loro amore splendente
spunta sulla boscaglia tremolante del mondo,
finito il moto
per un secondo ancora
sbatte e colpisce la luna,
i satelliti s'inceppano
in una vecchia promessa
e insieme voltano ammainati i venti:
il tuo abbraccio la spezza
il tuo cuore è inadatto
la tua lingua incomprensibile,
El per non farla diventare
la sorprendeva.

Da qualche parte in noi
libero è uno spazio da alberi,
dove le cicogne precipitano stecchite
picchiando le carlinghe dei razzi
per far loro perder la testa,
le rotte piangendo s'invertono
passano il deposito
gli hangar in cui rulla e s'appronta Saturno
e non possono prender la Terra,
anzi, senz'erba neppure: sfiorate
le leve segrete
le albe uscivano
ronzando come dischi,
come da una ferita mal riparata
il sonno degli esseri esce in vapore,
ma era la Terra
che le partoriva
ed El col buco nero le divorava,
il finto pescatore assopito e andato di sotto
spezzando la lastra del mare.

Ecco se il gran Sole e se l'Immenso
non fossero
ma fosse soltanto
lo scampanìo delle mani
quando ci si saluta
e il missile puntato, la navicella degli atomi,
i motori che più non ci abbandonano
e vertici linee che incessanti proclamano
d'ossidiana e lapilli la fattura del cielo,
l'altro mare a specchio
d'anemoni e formine, e in
questo nostro scrutiamo
di quello la pomice lunata,
la semplice fosforescenza degli astronauti:
il lento verde e
fluitare dei canali,
limo che mai vide e capì
minacciato dai tonfi
e di tuffi dalle massicciate,
o suono delle parole che non si dissero,
i non visti abitatori
in ascolto del vento che mai spira,
picchettati per i capelli
come Lilliput
dalle alghe e dai molluschi,
desti ai bengala dell'Asino e del Bue
e al mugghio del Bambino contro le stanghe:
da qualche parte in noi,
i marziani immobili osservano
sostare il nuoto innamorato degli sgombri
e un lugubre sole accomiatarsi,
cerimonioso, temperando un legnetto,
coi volti pensosi trascolorano
ai nomi delle fidanzate terrestri,
lontane lontane e
rifiorite per loro nei loro cuori verdi:
El soffiò in un'onda di vetro
una sfera
perché anche quel poco soltanto non fosse.



Bianco


I morti si rivoltano alla morte,
babbo Inverno, nessuno rifiata
la tua controparola d'ordine, ma
l'alfabeto si consolida in grandine in
solida luce,
resta    resta    resta
solo tra i pattinatori sull'acqua che
molti soli cadono come monete, e
la velocità è un passo falso
in questo stato dell'anno:

il crac dal bosco e il
cane abbaia una sfera di stupore ai
falconi di rientro negli occhi, gli
insetti dormono in gocce d'ambra e
tutti i ripari sono anime, le
erbe gelate nello stomaco del bue
e il salmo della neve
dove amanti si stendono, non
sai più se per spirito o sorriso, hai
messo sonagli alla valanga
e lo stagno brina:

inciso in un dente d'aria,
graffiato dai battenti,
me che inquieto delimita
impianta e coltiva la foresta,
v'inchioda la mappa degli animali,
il cigno prima freddo sul
vassoio poi alto sulla palude e
ora, se ti voltassi, alla deriva sullo
specchio l'orma grossa del respiro trattenuto
o una figura lontanissima
con la capanna ancorata al fianco non
ricordo non ricordo non
ricordo il bisbiglio della notizia buca:

volano a forma di calice,
a lupi di stormi a passeri di branchi
e sibilano bibliche pietre nella corrente
e narrano e non affondano
per affrettarmi ad amare,
ultimo minuto che sfigura,
stridìo in vista, e
pensa disporre un pensiero
infrangere le leggi
entrare le porte
oscuramente.



II cielo della terra


Incominciando
col pane che piange nel laboratorio,
aureolato di ricordi, osservato nel sonno,
cotto in gennaio al fuoco della domanda
nel buio col buio da una tovaglia d'uomini col fulmine
all'attacco della foglia, al cuore dell'annuncio:
soltanto le donne gravide pendono in aprile.

Crediamo:
il mio occhio soffia sul taglio che
le braccia rimandavano al petto, è qualcosa
di più del fiume rincorso dal puma in sogno stanotte
o del cadavere lodato nelle frasche che si spaglia,
frizza contro la pioggia beccheggia tra
gli scogli, la pietra focaia la roccia.

In ultimo
tutte le tenebre pongono la testa all'ombra
di un loro unico piede, gli uomini in separate
doglie salgono scendendo un ponte,
verso una cuccia d'oro e una volontaria catena
di carta, l'orrore dell'amore, la perdita del nome,
e il mare sicuramente comincia e s'apre.



**

Solo i prossimi fiumi e il grano,
domandano i freni alle mucche nelle stalle,
catturate da un filare di vita
traducendo pianto a forza di pugni
in goccioline di notte e in sangue di mosto,
innaffiate da dolore in agguato,
testimoniano che le case aprirono i fianchi
come partorienti frugate da luci impazzite,
regalarono fedeltà.
Gli uomini dentro di loro non vedono,
gli occhi danno occhiali di terra
che sbracciano per prova
in un vagone di lampadine e rimpiangono
la testa dell'amore sotto la rete
del letto che arde in croce disteso.
Solo i prossimi fiumi e il grano,
isolati, nessuno non colpevole,
adatti a mescolarsi, ondeggiano
le gambe di una spia che avverte.


Alessandro Ceni è nato a Firenze nel 1957.
In poesia ha pubblicato: I fiumi d'acqua viva, in "Poesia Uno", Guanda, Milano 1980; II viaggio inaudito, Tosadori, Riva del Carda 1981; I fiumi, Marcos y Marcos, Milano 1985 (2°ed. 1990); La natura delle cose, Jaca Book, Milano 1991; II pieno e il vuoto (antologia a cura di R.Carifì con una nota di P. Bigongiari), Marcos y Marcos, Milano 1995; Tra il vento e l'acqua (autoantologia e riflessioni), Edizioni della Meridiana, Firenze 2001; Mattoni per l'altare del fuoco (riunisce le plaquettes: Nel regno, NCE, Forli 1993; La realtà prima, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1995; Ossa incise e dipinte, L'Albatro Edizioni, Porto Sant'Elpidio 1999), Jaca Book, Milano 2002; La ricostni^ione della casa, Poesie scelte 1976-2006, a cura di D.Piccini, Effigie Edizioni, Milano 2012.
Come saggista: La sopra-realtà di Tommaso Landolfi, Cesati Editore, Fkenze 1986.
Ha tradotto, per grandi editori, S.T. Coleridge, E.A. Poe, John Milton, Charles Brockden Brown, Oscar Wilde, R.L. Stevenson, Joseph Conrad, Djuna Barnes, Lewis Carroll, D.H. Lawrence, Edith Wharton, Herman Melville, Walt Whitman, Charles Dickens. Oltre che poeta è pittore.

2 commenti:

  1. un ottimo poeta la cui scrittura dovrei frequentare di più. colpa mia. grazie Stefano per ricordarmelo!

    un abbraccio

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  2. la prossima volta ricordati anche di firmare :-)

    ciao!

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