lunedì 1 aprile 2013

Una vecchia, ma sempre attuale, lettera a Giuseppe Cornacchia



Mi scrive di recente Giuseppe Cornacchia: "Sono stato sollecitato da alcuni post recenti su “Nazione Indiana” circa la neoavanguardia, la sua eredita’ e lo scontro col lirismo-paroliberismo. Ho dunque avuto modo di rivedere le mie noterelle teoriche costruite negli ultimi anni. Vorrei adesso organizzare un articolo formale in modo da non perdere il lavoro. Credo dunque sia il momento giusto per rispondere alla tua lettera aperta su razionalita’ scientifica e pensiero della poesia che mi indirizzasti qualche anno fa, tramite la rivista “Atelier” n.50, del giugno 2008."

Colgo l'occasione per ripubblicare quella "lettera", poi uscita, in altra veste. in Stefano Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009)

Razionalità scientifica e pensiero della poesia (lettera a Giuseppe Cornacchia)1



Caro Giuseppe,
vorrei proporti alcune mie considerazioni, nate intorno al tuo inter­vento al convegno su La responsabilità della poesia. Di cosa siamo poeti?, organiz­zato qualche anno fa da «Atelier»2. Mi preme soprattutto esplicitare il nucleo verità e scienza, da te appena accennato eppure fondamentale per comprendere la diffe­renza fra la razionalità scientifica e il pensiero della poesia.
Entrambi condividiamo l'assunto dell'epistemologia post-positivistica secondo la quale nessun sapere ha l'esclusiva sulla verità. Mi viene in mente in particolare la posizione di Karl R. Popper a proposito dell'oggettività della scienza: essa, afferma, «non è una faccenda individuale» bensì riguarda l'«amichevole-ostile divisione del lavoro» degli scienziati, «e quindi dipende, in parte, da tutta una serie di condizioni sociali e politiche, che rendono possibile questa critica»3.
Vorrei approfondire ulteriormente - non tanto a te che ben conosci la cosa, ma ad un potenziale lettore in cerca di risposte - la posizione del filosofo austriaco appunto perché tiene aperta la relazione fra conoscenza e linguaggio, ma in un'accezione assai differente da come la istituisce il poeta. Allora, posto che l'oggettività sia espressione della democrazia (la «società aperta», che difende la libertà di scelta individuale dalle chiusure totalitarie), bisogna ora chiarire quale logica la fondi. L'unica valida - scrive Popper, capovolgendo la procedura induttiva che fonda il criterio di verificabilità - è la «logica deduttiva», nella quale «se le premesse di una deduzione valida sono vere, deve essere vera anche la conclusio­ne»4. La confutazione mira a mostrare la contraddittorietà delle conseguenze e cioè: se le conseguenze sono false (inaccettabili dal punto di vista logico) vuoi dire che false sono anche le premesse. In questo senso, l'esperienza (il vedere, il tocca­re ecc.) non è il punto di partenza della conoscenza scientifica, bensì il punto d'arrivo. L'avvio è sempre proposizionale, attraverso un procedere per enunciati elementari, aventi la forma di «asserzioni singolari non autocontraddittorie» (es. in via x abita y; il treno è partito alle 10,40 ecc.)5.
Il principio di falsificazione popperiano, tuttavia, non si limita ad affermare che «una teoria è falsificata soltanto se abbiamo accettato asserzioni-base che la con­traddicano»6, bensì ribadisce la necessità di scoprire «un effetto riproducibile che confuti la teoria». Insomma, se esiste un evento falsificante rispetto ad una teoria e se abbiamo individuato asserzioni-base che contraddicono l'ipotesi di partenza, allora la teoria è scientifica e questa costituirà un passo ulteriore delle conoscenze umane verso una verità oggettiva mai raggiungibile completamente (per questo egli preferisce parlare di «verisimiglianza»)7. Quanto invece non rientra in questa proce­dura non è scientifico, bensì appartiene alle verità dogmatiche o metafisiche: verità certamente sensate (cioè che noi possiamo comprendere perché logicamente inec­cepibili), ma che non possiamo confutare e, dunque, definire scientifiche. È per questa ragione che Popper nega lo statuto di scienza sia al marxismo e sia alla psicoanalisi, essendo appunto apparati proposizionali che hanno un'impostazione di tipo teologico o, quantomeno, «teistico», e ciò impedisce di individuare un evento o un'asserzione-base - un «falsificatore potenziale» - capace di confutarle8.
La questione, per la poesia, è sostanzialmente differente: essa infatti - almeno per il modo in cui la intende una certa tradizione giunta a compimento nel Novecento - non risolve né pone problemi, non decostruisce fenomeni e nemmeno li ricompone logicamente. La poesia dunque non ragiona (cioè non lega elementi noti per produrre l'ignoto, che pure era presupposto nella formulazione del proble­ma), ma pensa direttamente l'infondato, che è l'uomo stesso nel suo essere qui, davanti al foglio bianco, in una tonalità affettiva imprescindibile, ma anche impren­dibile nella sua radice e che il linguaggio trattiene nella rete multipla delle sue regole. Ciò che il poeta conosce è la vertigine di quel trattenere senza proprietà, che è pensiero ossia dialogo sguarnito di protezioni con la parola che avanza, che chiama alla responsabilità dello stile. E dunque scrivere poesie non significa addita­re qualcosa che si ritiene vero, conoscendolo attraverso il doppio cappio della nomi­nazione e del metodo, e nemmeno, più semplicemente, consiste nel tradurre il mondo «a chi non capisce o non ha la sensibilità» per farlo9, bensì si concretizza nel lasciar-essere ciò che siamo nella sorpresa che questa esposizione comporta, uno stare dis-locati eppure adesso e qui (qui nella mia città, con l'acqua che manca, oppure che abbonda, con mia moglie o senza mia moglie, con un libro in mano oppure nel bosco, con la paura del nucleare o con l'entusiasmo per la sua possibilità complessiva). La poesia mette al mondo questo incontrarsi multiplo di possibilità, mosso e patito dal poeta, sorta di «apparecchio sensibilissimo» che, come scrisse Antonio Porta, percepisce «il movimento nel suo stato nascente»10. In quanto auctor, tuttavia, egli conosce una tecnica per conservare tale complessità; ed è a questo livello che la conoscenza strumentale incontra il pensiero poetante, giacché lo stile altro non è che la formalizzazione rigorosa di una sostanza mobilissima, di una nuvola linguistico-retorica il cui impasto tiene corpo e mondo, affettività e ragione, passività e desiderio, ma anche il tramandarsi delle tradizioni entro il cui orizzonte (plurale) noi operiamo.
In questo senso, non si tratta di superare i padri o di rinnegarli, come infatti tu stesso affermi, giacché loro non ci privano di nulla: io, infatti, sono qui, adesso. Non mi manca antropologicamente nulla, se non il senso definitivo per cui sono qui, adesso. E allora scrivo e magari leggo i padri, per sentire il loro tremore, la loro stessa fiducia o sfiducia nella parola. Così facendo scelgo una tradizione e poi necessariamente (con fatica, ci ricorda Harold Bloom nell'Angoscia dell'influenza) cerco di liberarmene, per sopravvivere in quanto autore. Sotto questo aspetto, la conoscenza, in poesia, viene a coincidere con la ricerca della propria voce e della sua radice, a partire dalla consapevolezza che questa cresce nel ceppo di una tradi­zione mai definitiva, e sguscia sulla pagina attraverso il corpo e la tecnica, le cose fatte e da fare, gli amici e i nemici vivi e morti.
Da parte mia, apprezzo molto il tuo tentativo di cercare la tua voce, indipenden­temente dalle tendenze di comodo. E sono certo che la poesia «sicuro dal punto di vista delle eccezioni»11 ne sia il frutto necessario. In verità, è come se tu avessi scritto una poesia in latino o in aramaico, oppure avessi steso alcune note sul pen­tagramma o usato l'alfabeto morse o scelto il sistema gestuale: in ogni caso la que­stione, per la poesia, non è quella di mostrare la dimestichezza con un codice, ma piuttosto, come scrive Montale, di dire quello che il codice che sto usando non è programmato a dire. E dire l'indicibile significa proprio dare voce a quello scarto indomabile eppure atteso, carico di futuro, dovuto probabilmente alla meraviglia di ciascuno di noi di fronte alla propria presenza ingiustificata, che ci muove verso la domanda sul perché siamo qui e non altrove. In questo senso, il problema che pone il tuo testo è lo stesso del Montale della Casa dei doganieri, quando scrive che «il calcolo dei dadi più non torna», soltanto che tu trasfiguri lo stupore per questa verità (che è di matrice umanistica), in «template» di matrice informatica. Dal punto di vista della polis (prospettiva dalla quale un poeta non può prescindere), occorre chiedersi: «In che senso la tua scelta è vincente, rispetto a quella dei padri? Quale instabilità dell'ovvio mette in gioco? Che forza ha nel presente e come lo apre, come gli consente insomma di essere ciò che è?». Tu potresti rispondermi sottolineando il fatto che non è il codice ad inte­ressarti, bensì la possibilità «di scrivere "metallico"» ossia con «la pesantezza, la "piattezza" del discorso puramente deduttivo», eliminando «del tutto la componen­te umana»12; io invece ribadisco che è proprio questa componente ad essere l'imprendibile che ci scarta dal modello, che ci tiene nell'aperto di una gettatezza già sempre situata e irripetibile. Credo dunque che poesia sia conoscenza nella misura in cui rilancia queste domande, le gioca nel singolo testo, si gioca in quanto possibilità che non incancrenisce, estasi diveniente che si spazializza in differenti dimensioni (grammaticale, retorico-stilistica, semantica, immaginativa, simbolica ed etica), adunandole in un corpo testuale, che «non trova riparo», direbbe la Szymborksa, un corpo che, come scrive Franco Rella, è «limite e oltranza [...] confi­ne e sconfinamemento»13.


note
1 giuseppe cornacchia (1973) lavora come ricercatore in Inghilterra. Variamente impegnato e segnalato su carta e su web, co-gestisce dal 2002 il portalino nabanassar, di cui è fondatore e webmaster. Ha pub­blicato Aladar (Pistoia, Ass. Cult. Press 2003), Nabanassar - atto unico (Ass. Cult. Press, Pistola 2003), Ottonale (in Sei Autori. 3 x 2, a cura di Alessandro Ramberti, Rimini, Farà 2006) e Vampirnacchia — molti scrìtti letterari 1996-2002 (Lulu 2007).
2 Gli atti del convegno uscirono su «Atelier» n. 24, dicembre 2001.
3 karl R. popper, La logica delle scienze sociali, in aa.vv., Dialettica e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, trad. it. A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1972, p.114. Si confronti inol­tre karl R. popper, Conoscenza aggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, trad. it. Arcangelo Rossi, Armando, Roma 1975, p.186: «L'oggettività, anche della matematica intuizionista, si basa, così come l'oggettività di ogni altra scienza, sulla criticabilità delle sue argomentazioni. Ma ciò significa che il linguaggio diventa indispensabile come medium dell'argomentazione, della discussione critica». Invero, la scienza contemporanea ha abbandonato lo stesso paradigma di "oggettività conoscitiva". Si pensi alle acquisizioni sulla complessità, in particolare le riflessioni di werner heisenberg, jacques monod, ilya prigogine, edgard morin, e fritjof capra relative al rapporto ordine/disordine, caso/necessità, scien­za/arte/filosofia. Ancora più radicale è il pensiero di paul K. feyerabend, che riconosce la possibilità della scoperta scientifica proprio nella trasgressione dai metodi codificati, con ciò negando «l'idea di un metodo fisso o di una teoria fissa della razionalità», compresa quella popperiana. Scrive infatti il filosofo che la conoscenza «non è una serie di teorie in sé coerenti che convergono verso una conce­zione ideale, non è un approccio ideale, non è un approccio graduale alla verità. È piuttosto un ocea­no sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili (e forse anche incommensurabili)». Io., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. it. Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 21-29.
4 karl R. popper, La logica delle scienze sociali, in aa.vv., Dialettica e positivismo in sociologia, op. cit., p. 116.
5 karl R. popper, Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, trad. it. Mario Trincherò, Torino, Einaudi 1995, p. 74.
6 Ibidem, pp. 76-77.
7 «Lo scopo della scienza è la verità nel senso di migliore approssimazione alla verità, di maggior verisimiglianza. [...] La ricerca della verisimiglianza è uno scopo più chiaro e più realistico della ricerca della verità», per questa ragione «possiamo spiegare il metodo della scienza... come il procedimento razionale per avvicinarsi maggiormente alla verità» (karl R. popper, Conoscenza aggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, op. cit., pp. 84 - 85); «Le nostre teorie congetturali tendono progressivamente ad avvicinarsi alla verità; cioè a descrizioni vere di certi fatti o aspetti della realtà» (Ibidem, p. 66); e ancora, con piglio quasi romantico: «Noi siamo cercatori di verità, ma non siamo suoi possessori» (Ibidem, p. 73).
8 Si tratta del celebre «criterio di demarcazione», il quale non è «netto», ma ha «esso stesso dei gradi. Vi saranno - continua popper in Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (trad. it. Giuliano Pancaldi, Bologna, II Mulino 1972, p. 437) — teorie ben controllabili, altre difficil­mente controllabili, ed altre non controllabili affatto. Quelle non controllabili non rivestono alcun interesse per gli scienziati empirici. Possono essere ritenute metafisiche». Si veda inoltre karl R. popper, // mito della cornice. Difesa della razionalità a della scienza, trad. it. P. Palminiello, Bologna, II Mulino 1995, pp. 115-122.
9 Sostiene cornacchia, infatti, che «il poeta non propone, ma rende quello che il mondo già dice, tradu­cendolo a chi non capisce o non ha la sensibilità per distinguerlo» (giuseppe cornacchia, La responsabi­lità della poesia. Di che cosa siamo poeti?, «Atelier» n. 21, p. 16).
10 antonio porta, /( progetto infinito, a cura di Giovanni Raboni, Roma, Fondo Pier Paolo Pasolini 1991, p. 14.
11 Riporto la prima strofa così da chiarirne il lessico e la struttura. «template / class fixed_population / { / public: / typedef human* conscience; / typedef const human* common_sense» (giuseppe cornacchia, Ottonale, op. cit. p.104 - 105).
12 giuseppe cornacchia,  La responsabilità della poesia. Di che cosa siamo poeti?, op. cit., p. 18.
13 franco rella, Ai confini del corpo, Milano, Feltrinelli 2000, p. 80. Anche il verso della Szymborksa, tratto dalla terzina «Ora certa, ora incerta della propria esistenza, / mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è / e non trova riparo»), è citato da Rella nel medesimo libro (p. 203). 


Nessun commento:

Posta un commento