mercoledì 18 gennaio 2012

Alessandra Cava



Appello per voce sola, questo di Alessandra Cava, che in rsvp ci consegna un lamento di un io liquido "che cola", un io tuttavia plurale, "coro", quasi fosse destino comune la liquefazione (Ungaretti ne L'Allegria: "Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni"), ma anche un io volutamente disincarnato, senz'altro supporto che la carta grigia delle edizioni Polimata: nessuna nota biografica, infatti, nessuna foto e nessun aiuto per l'enigmatico titolo (che va letto, mi pare, nella formula francese, répondez, s'il vous plaît, rispondete, se vi fa piacere).

La postfazione di Cecilia Bello Minciacchi, trova giustamente la radice di Alessandra Cava nella voce di Mariangela Gualtieri e in quella, maestra per entrambe, di Amelia Rosselli. Si potrebbe aggiungere Antonella Anedda, per quello sporgersi del corpo vocale sui precipizi dell'esistenza, a partire da uno spazio angusto (che in Alessandra Cava, è casa, sottoscala, bocca che pronuncia la vita da un profondo disagevole, che è memoria, disperato presente ma anche speranza). Scrivere, dice, è abitare "in angolo stretto", vivere l'indicativo presente, per rifondarlo in un altrove già stato, quando "c'era quel che non so" e lei era "freschissima", ma anche in un futuro possibile (inaugurato dal condizionale): "sapessi stare, stare qui nel luogo primo, ignorare i giorni",  se "fossi l'apertura / generosa del valicare, fossi quella generosità del confine a / schiudersi, disponibilità infinita dell'accedere, del passare, / dell'oltre, del traversare – potessi sporgermi da tutti i balconi / e vedere passare".

Con versi lunghi, che procedono per gemmazione, iterando sintagmi, agendo sull'anafora, creando insomma ritmi carichi di pathos, questa voce chiama anzitutto il tempo dell'autenticità a farsi avanti, a rispondere di un'esistenza che passa senza ragioni fondanti (" ... non / voglio sentire la stagione corrente / non voglio sentire che passa, / non voglio passarla, faccio scudo con niente") e chiama noi da un altrove che ci è familiare, estraneo soltanto a chi vive in superficie, a chi non interroga le cose.

L'interrogare di questa poetessa si dà nella forma del transito, del passare attraverso –  di labirinto in labirinto direbbe Italo Calvino – in uno spazio frammentato, di cui non è più possibile ricostruire l'unità. Eppure Cava, nel medesimo tratto in cui ci comunica questa spaesante verità, non soltanto ci chiama e chiama il tempo migliore a farsi avanti, ma biforca il sentiero, alla Borges, ci tende la mano, per guidarci ad un tirocinio infernale, con la promessa di un ricominciamento, sia pure senza teleologia.




la casa, la casa durissima delle collezioni, delle addizioni,
degli strati santificati, la casa gentile dove infilare le partenze,
la casa dei muri sbucciati, la casa malandata, la casa dello stare,
dell’affacciare, lenta sedimentazione dello scorrere, del bussare,
dell’eco, dell’eco dovunque, la casa è la prima, la casa -


*

tu sei l’occhio, sei tutto l’occhio che sei, sei la lente,
l’obiettivo, il confluire dello sguardo, canale, sei l’immagine
immobile, immobile prospettiva sei, il non svanire -
io sto in ritratto nitido, io sto scolorata, saturata, messa
in luce, dentro i quattro lati, io sto in quattro lati buoni,
sto buona nei lati affilati, negli angoli retti dell’impressione,
sto in pezzi senza memoria nei cassetti, tacendo, io sempre
tacendo, io sempre, mai una parola, mai una parola buona -
eppure noi siamo ancora in carta, in mobile fissità, siamo in
questo spessore di carta, in leggerezza nel peso della carta -


*

fossi il limite inutile, l’inganno del confine, fossi l’apertura
generosa del valicare, fossi quella generosità del confine a
schiudersi, disponibilità infinita dell’accedere, del passare,
dell’oltre, del traversare - potessi sporgermi da tutti i balconi
e vedere passare, potessi vedere passare le cose, potessi, sapere
per caso che cosa, l’oggetto che ha trama speciale, che ha l’intreccio
introvabile, lo strappo, introvabile tessitura delle cose perdute -


*

amore durissimo, articolarsi delle ossa, scorrevole
rotolarsi delle ossa dalla pelle, solitarie per quel loro esitare
la diramazione, incantare, mettersi nel canto, mettersi
tutte nel canto, nell’aspro canto del sangue, nell’angolo
appuntito dei nervi, nello schiocco delle membrane, nelle aritmie,
nella violenza delle arterie, per quel lasciarsi ricoprire, isole
bianchissime nella carne, per la loro modestia di impalcatura,
di scheletro schivo, di lungo fiore sotterraneo, di radice -


*

oggi è un sole lungo, uno sguardo di notte bianca -
natura mi scosta, mi ignora: di sicuro la offende
il mio amore d’interni, di tubi, di tetti, di vetri all’incastro;
ma poco le basta, quel poco che afferra alle spalle
con passi d’altalena, quando sbaglia e prende aloni d’inferno,
quando pare artificio, un inganno, uno schermo
e m’attendo si spenga - processo d’infrazione del mondo, nulla
che raduna i suoi pezzi, così il mio seguire una parola
con altra in spazi di vuoto - ecco me allora, a chiedere di quale
tessuto è il ricordo, di quale s’intreccia, se è uguale, uguale
il colore - ecco allora l’immagine fatta di niente, ecco che arriva,
ecco, col suo bagaglio di niente - si sta a scrivere
allora, si sta in angolo stretto, si sta -


*
se posso trapassare lo sgomento, se posso fare breccia
di sgomento in leggerezza, se posso afferrare leggerezza
e incantare il peso, il peso turbinoso del mondo, spaventoso
cemento pesante del giorno, accogliermelo nelle mani, farmi
tutta peso declinante, peso che storpia, faticoso peso
in leggerezza forte, in mia volatile inclinazione, se posso fare
spazio nel cuore ostruito, se posso, in quel vano senz’aria -
se posso affacciarmi alla finestra e non vederti, se posso fare pensiero
pacato del mio non vedere che vieni o che vai, se posso fare
che assenza sia lieve, che sia lieve nello spazio e lieve molto
nel tempo, se posso fare che il tempo non strida, non mi scolori
nella sfinitezza, che non mi slacci la tessitura, che giochi piano
alla memoria, piano ai gesti e alle cose piccole, piano con noi
dell’età buona, dell’età gelosa custodita, se posso fare custodia
di assenza - se posso tenermi questi giorni lunghi di esattezza,
se posso disegnare lo stupore della somiglianza, del riflesso
al contatto, se posso vedermi in tua visione, contare le ore
della lucidità trattenendomi in tua nitida visione, se posso infliggermi
mancanza, essere intera mancanza che mi contorna, se così posso
farne carico inseparabile, se il vuoto è la presenza dolcissima che so,
se so ancora qualcosa, qualcosa ancora, ancora qualcosa non so -





Alessandra Cava è nata a San Benedetto del Tronto nel 1984. Si sta specializzando in Discipline dello Spettacolo dal vivo all’Università di Bologna e fa parte di Altre Velocità, gruppo di osservatori e critici delle arti sceniche. Suoi testi poetici sono comparsi su «Il Verri» e «Alfabeta2». rsvp è la sua prima raccolta.

12 commenti:

  1. molto interessante .. è vero si sente la gualtieri .. ma laddove lei si è incardinata (da tempo ormai) qui c'è qualcosa nell'intonazione e nell'intenzione che pare essersi già congedata da quel modello .. forse ancora inconsapevolmente .. ma sta agendo .. .. dovrei e vorrei leggerne di più ..

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  2. questo ripetersi dei termini lungo il verso non affossa, ma invece spinge, rilancia alla lettura; a me sembra che riesca a 'superare' i poeti citati, ma è un'impressione.
    anche laddove i testi si allungano e mantenere il ritmo può risultare più complesso, credo riesca appieno a 'trascinare' il lettore.
    complimenti.

    un abbraccio

    alessandro ghignoli

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  3. stefano massari19/1/12 13:13

    ciao ale !! tutto bene? a volte ho nostalgia dei vecchi blog .. bravo gugl che resiste . questo spazio è cruciale per sapere di quanta buona poesia circola

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  4. ciaro "ragazzi" :-)

    difficile superare Gualtieri e Rosselli. Semmai si portano altrove alcune sementi, le si fanno fiorire diversamente.

    mi fa piacere che due voci autorevoli come le vostre riconoscano autenticità in questa scrittura.

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  5. stefano massari19/1/12 23:00

    superare nel senso di andare altrove appunto .. ma non ho detto ,dopotutto chi scrive oggi lo fa affinché quello che verranno siano migliori di lui .. altrimenti che poeta sarebbe . altrimenti non avrebbe proprio più senso la poesia come forza umana prima ancora che diventi tutto il resto . bravo gugl.. buon fiuto

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  6. stefano massari19/1/12 23:01

    '''ma non è detto''' volevo dire ...scusatemi

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  7. eccerto che superare A. Rosselli... intendevo che si nota una certa autonomia nei testi di A.C., non è questo 'ri-scrivere come' così inutile e noioso e anche poco rispettoso per chi ti legge. scusate la superficialità della critica: ma mi sono piaciuti molto, e non è che mi succeda così spesso (purtroppo).
    /ciao s.m., ti ho scritto/

    un abbraccio

    alessandro ghignoli

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  8. sì, lo immaginavo :-) lo scimmiottamento è un esercizio in effetti frequente, e utile, basta non abbattere alberi per farlo sapere a tutti!

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  9. La cosa che mi ha affascinata all'inizio è stato lo scorrimento sonoro, la parola scritta che si fa fonazione piena d'eco. La geometria del suono è delicata ma continua e insistente. Questo mio perdermi nella voce in aria (perchè la prima volta l'ho sentita recitare)mi ha spinto a voler leggere la raccolta nel suo insieme. In certi casi leggere il libro porta, purtroppo, a indebolire l'idea della poesia che abbiamo di un autore; in questo caso la struttura della raccolta apre ancora di più il respiro e lettura dopo lettura lascia affiorare rimandi, dettagli, collegamenti sottili. rsvp è un piccolo microcosmo compatto e tangente alla realtà di chi legge. C'è davvero tanta qualità da scoprire in piccoli assaggi. Scusate la lungaggine ma, come ha detto alessandro, oggi non accade spesso che si rimanga colpiti in modo forte dalla poesia "nuova" e quindi mi sembra giusto esprimere un parere, elogiare.

    grazie Stefano per la recensione,
    Elena

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  10. grazie Elena per il commento. E benvenuta in Blanc.

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  11. Mi incuriosisce, anche se piuttosto distante dal genere che di solito frequento.

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  12. ti ho copiato con tutto l'occhio che ero, quel giorno, a modena, invertendo il senso di cio' che eravamo.

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